Ciak, si canta!

di Emanuele Dominioni

Adriana Lecouvreur torna a Como nell'allestimento firmato da Ivan Stefanutti, elegantissimo nella sua ambientazione belle époque, ma non altrettanto curato nella recitazione.

COMO, 18 ottobre 2014 - Secondo titolo nel cartellone di quest’anno del Teatro Sociale di Como, Adriana Lecouvreur viene riproposta nello stesso allestimento della stagione 2002/2003 del Circuito lirico lombardo, firmato da Ivan Stefanutti con Amarilli Nizza allora protagonista.

Il titolo ha trovato spazio nel grande repertorio del melodramma di tradizione grazie all’appassionata sensualità delle melodie con cui Francesco Cilea è riuscito a dipingere un affresco dalle screziature decadenti, intorno alla tragica vicenda della protagonista: un’attrice di prosa. L’opera prende forma in un vivace clima culturale fin de siècle in cui il gusto verso un crepuscolarismo permeato da tinte veriste e un teatro di prosa di impronta sempre più borghese costituivano insieme un fertile e scintillante scenario per l’affermazione di alcune fra le più celebri dive di teatro. La stessa fenomenale interpretazione che Sarah Bernard fece della novella di Scribe e Legouvé Adrienne Lecouvreur (quindici anni prima del capolavoro di Cilea), deve aver influenzato non poco il compositore nella creazione dei caratteri portanti della vicenda narrata nell’opera. Come Stefanutti stesso suggerisce “ciò lascia supporre che nella definizione del personaggio di Adriana, si debba volgere lo sguardo oltre l’opera di Scribe e Legouvé, proprio in direzione delle stelle del firmamento teatrale e della neonata arte cinematografica del film muto”.

Esattamente in questo quadro il regista sceglie di posporre la vicenda - dal primo ‘700 alla Belle époque parigina -, trovando perfetta collocazione nel contesto culturale in cui l’opera è stata ideata. Non più stucchi, parrucche e atmosfere ancien régime, ma un’eleganza liberty in cui scenografia, costumi e movenze devono molto alla forte connotazione teatrale del cinema di quegli anni. Ovviamente il tema della diva che interpreta la diva non sfugge al regista e, anzi, viene posto in estremo risalto. Qui più che in Tosca, Adriana è la diva che svela la sua natura passionale e fragile di donna attraverso il rapporto con Maurizio, ma è in qualche modo costretta a tornare diva anche fuori dal palcoscenico allorquando recita il monologo di Fedra alla fine del III atto e si scontra con la Principessa di Bouillon.

Il tutto si dipana in un contesto scenico elegantissimo, bianco e nero - sempre in riferimento alle atmosfere del cinema coevo -, composto da abiti luccicanti, arredi in smaccato stile liberty e vistosi dettagli floreali delle acconciature. Visivamente l’impatto era di grande effetto e perfettamente aderente alle esigenze della vicenda.

Dispiace annotare che la stessa cura non sia stata però riservata alla caratterizzazione attoriale dei protagonisti. Una recitazione di maniera unita ad una scarsa attenzione nello sviluppare una viva relazione fra personaggi ha fatto scendere di qualche grado la temperatura teatrale soprattutto in una regia di stampo tradizionale con forte valenza estetica come questa. La staticità dell’azione scenica comprometteva a volte il coinvolgimento emotivo al dramma, anche in quei momenti come il finale secondo, e soprattutto terzo, in cui la forza teatrale dei protagonisti dovrebbe emergere con più viva intensità.

Daria Masiero (già apprezzatissima Desdemona nella scorsa stagione Aslico) è cantatrice raffinata nel fraseggio e dalla solita tecnica vocale. La voce è di soprano lirico-spinto che ben si presta alla scrittura di Adriana, come mostrato dalle molte preziosità vocali che ella ci regala: i miracolosi filati, e l’eleganza nel porgere la parola sono frutto di una linea di canto pressoché perfetta. Riesce ad essere sempre espressiva nei momenti di più puro lirismo, meno in quelli più drammatici in cui purtroppo la sua performance era in parte compromessa da un physique du rôle non molto adatto alla parte, e da una mancanza pressoché totale del carisma da prima donna che per un ruolo come questo è essenziale. Ne emerge un personaggio più languido e remissivo anziché passionale e vendicativo come talvolta il libretto ci suggerisce, a fuoco più nelle due arie e nell’atto IV che nei momenti più concitati del dramma.

Una sorpresa il tenore Angelo Villari. Dotato di voce alquanto sonora, e ben proiettata da tenore lirico spinto , si trova perfettamente a suo agio nella parte di Maurizio. Qualche problema nelle mezzevoci non compromette però una prova vocale sempre tecnicamente salda. Disegna un personaggio dagli accenti eroici che sa però dar vita ad abbandoni romantici nei duetti con Adriana, e di grande pathos lirico nelle arie.

La vocalità dal mezzosoprano Sanja Anastasia è torrenziale per volume e intensità, dal fraseggio impetuoso e dallo smaccato stile verista . Offre però un'interpretazione piuttosto monocorde e sopra le righe del personaggio della principessa di Bouillon, perennemente altalenante fra l’esagitato e il disperato che a lungo andare risulta inevitabilmente debole e macchinosa. A fronte di mezzi vocali notevoli, la chiave di lettura del personaggio avrebbe potuto essere meglio gestita e sviluppata con l’ausilio registico, anche in riferimento al forte temperamento scenico della cantante.

Francesco Paolo Vultaggio è un Michonnet dalle fattezze giovani e dalla gestualità assai mobile. E’ più un affettuoso e fedele amico che un “vecchio padre” come egli spesso si schermisce durante la vicenda. Canta con gusto e partecipazione emotiva costanti, aiutato da un timbro da baritono leggero molto piacevole all’ascolto, e offrendo un’interpretazione assai coinvolgente e, soprattutto nel finale, a tratti commovente. Di grande valore il folto parterre di comprimariato. In particolare ottima la prova di Luca Gallo e Matteo Macchioni nei ruoli del Principe di Bouillon e dell’abate di Chazeuil entrambi accurati interpreti, e dei quattro attori della compagnia: Ugo Tarquini (Poisson),  Riccardo Fassi (Quinault) e le frizzanti e spigliate Lucrezia Drei e Lara Rotili (Mad.lla Jouvenot e Mad.lla Dangeville).   

A guida dell’orchestra dei pomeriggi musicali di Milano era Carlo Goldstein, che mantiene una direzione puntuale e precisa della formazione orchestrale meneghina, anche se troppo poco attenta all’equilibrio dei volumi fra buca e palcoscenico. Spesso le voci risultavano coperte o tendenti ad un forte perenne, nel tentativo di sovrastare l’intensità del suono orchestrale. Ottima anche la qualità di suono del coro Aslico, guidato da Antonio Greco, che ha saputo donare rilievo espressivo e valore ai suoi brevi interventi.

foto Alessia Santambrogio