La rivalsa del passatismo

di Giuseppe Guggino


Conclusa la rassegna “Nuove musiche” dedicata all’avanguardia musicale contemporanea e del ‘900 storico, l’attenzione della diversificata offerta culturale del Massimo con Švanda, dudák vira verso una regione della musica del secolo scorso circoscritta e oggi sostanzialmente rimossa, volutamente distante dalla cifra estetica dell’avanguardismo; nonostante la scelta di allestimento di sicuro impatto visivo manca la riconciliazione con i favori del grande pubblico che, invece, accorre poco numeroso, purtroppo.

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Palermo, 19 ottobre 2014 - Sulle fortune o sfortune teatrali di un titolo operistico, al di là dell’esito della prima assoluta, è il tempo ad avere l’ultima parola e, in genere, si tratta di quella giusta; capita sporadicamente però che il tempo possa essere stato cattivo giudice di un titolo o – ed è questo il caso – dell’intera produzione di un compositore e quindi bene, anzi, benissimo fa il Teatro Massimo a riservare (ormai tradizionalmente) almeno un titolo della stagione d’opera ad un repêchage. E quest’anno (forse in vista di una stagione 2015 francamente un po’ a corto di idee e stimoli) ci si voluti concedere il lusso di ben due titoli “rari” proponendo Švanda, dudák del boemo Jaromír Weinberger dopo l’inaugurale Feuersnot di Strauss (rivelatosi peraltro un autentico capolavoro).
Se la deliziosa Švanda, dudák non è destinata ad entrare nell’olimpo dei capolavori per via di una genuina ma innocua drammaturgia favolistica popolata da diavoli, diavolesse, stregoni e apatiche regine senza la più remota possibilità di strumentalizzazione satirica in chiave politica, la sua musica feconda, varia, elegante prodotto di mai troppo lodato magistero d’artigianato compositivo, rivela una sorpresa di godibilità che quasi spiace la consapevolezza di un futuro riascolto non molto probabile, vista la frequenza viene messa in scena; già, perché questa storia di diavoli e diavolesse ha un vestito musicale cucito dal sarto Weinberger veramente scintillante che è un peccato troppo grande lasciarsi sfuggire, specie in quest’occasione in cui l’abito musicale è presentato in una versione scenica che sarebbe difficile immaginare più calzante. Axel Köhler, grazie ai coloratissimi costumi di Henrike Bromber, attinge all’intero arco dell’immaginario estetico infantile così da ridestare nello spettatore la recondita e nostalgica regione del déjà vu, facendo muovere alla perfezione i personaggi in un quadro inclinato pensato da Arne Waltehr contenente inizialmente la piccola casina dei nostri due contadini Švanda e Dorotka, che poi si ingigantisce fino a divenire il regno della Regina Cuordighiaccio (vagamente somigliante a quelle vecchie stazioni ferroviarie di testata, costruite a fine rivoluzione industriale) o niente poco di meno che l’inferno (pensato come una vera e propria fabbrica siderurgica) per poi tornare ad essere la casina in miniatura dalla quale era partita l’intera favola, giusto in tempo per il lieto fine. Coadiuvano (e non poco) la riuscita perfetta dell’idea le magiche luci di Fabio Antoci e le scatenate coreografie di Gaetano Posterino, di importanza capitale in un’opera costituita per due terzi da danze popolari boeme, tra ipnotici odzemek, vorticosi furiant, maestose polonaise, polke ossessionanti e valzer onnipresenti.
Va da se che la scrittura orchestrale di queste danze, così come quella degli interludi dell’opera, è talvolta estremamente virtuosistica e tale da mettere a dura prova gli archi (in genere validi) dell’Orchestra del Massimo, a cui sembra mancare la giusta articolazione del suono per rendere giustizia di qualche fugato contrappuntisticamente assai articolato, nonostante il giovane direttore Mikhail Agrest sembri adeguatamente convinto del valore estetico di ciò che fa eseguire.
Stavolta il Coro del Teatro ci omaggia la sua performance in un’opera in lingua slava, a differenza che nel recente Boris Godunov, dove s’era dovuto far ricorso emergenziale ad un coro ospite.
Il cast si impernia sull’eccellente Švanda di Pavol Kubáň al quale non si può davvero chiedere nulla di più di quello che offre sia vocalmente che scenicamente. Non altrettanto bene può dirsi del Babinský di L’udovít Ludha che, almeno nel secondo atto, canta discretamente ma in debito di quell’ampiezza e spavalderia richiesti dall’impervia parte nonché dal pretenzioso personaggio. Ulteriori riserve si devono avanzare su Marjorie Owens il cui materiale vocale sarebbe anche interessante se non fosse per l’aleatorietà di un’emissione sempre titubante e vibrante che finisce con l’intaccare la resa delle appassionate arcate melodiche di Dorotka.
La breve parte della Regina Cuordighiaccio consente comunque ad Anna Maria Chiuri di sfoderare il suo strumento sano, saldo capace di sciabolate veementi così come del malinconico canto a mezza voce su tutta la gamma. Analogamente splendide le prove dello Stregone di Roberto Abbondanza, provvisto di voce pregevolissima di basso (appena in fallo in non più di un paio di gravi al limite dell’inumano) e del diavolo di Michael Eder, voce forse meno preziosa rispetto a quella del malefico collega, ma ugualmente efficiente per la realizzazione del ruolo. Al tenore Timoty Oliver l’onere come famulo del diavolo di rimpolpare efficacemente un oneroso quartetto (che peraltro lo vede anche irresistibile caratterista in scena), oltre che quello di balbettare nel ruolo del Boia, mentre gli altri personaggi comprimari tenorili spettano al funzionale Alfio Marletta.
Pubblico della prima poco caloroso se non agli applausi finali, oltre non molto numeroso: peccato per chi non c’era o non vorrà recuperare fino al 26 ottobre. Un’ulteriore raccomandazione è da riservare all’acquisto del programma di sala che, con la consueta cura iconografica ed eleganza grafica, presenta interessantissimi saggi di elevata caratura scientifica, oltre che un’irresistibile traduzione del libretto firmata da Emanuele Bonomi in cui si riesce a rendere in italiano il gusto della filastrocca rimata con rigido ordito metrico del testo in lingua originale.