Maria la sanguinaria

di Francesco Bertini

Riproposta a Bergamo, per il Festival donizettiano, la fosca e rara Maria de Rudenz. Un'occasione preziosa ma non del tutto valorizzata da un'esecuzione tesa a enfatizzare l'aspetto più cupo e allucinato dell'opera, ma infine musicalmente e teatralmente piuttosto alterna.

BERGAMO, 20 settembre 2013 - L'ottava edizione del Bergamo Musica Festival sta affrontando una grande sfida: oltre al titolare dell'intera manifestazione, Gaetano Donizetti, sono state fatte altre due importanti dediche, quella a Giuseppe Verdi, immediato erede dell'opera musicale del bergamasco, e quella a Giovanni Simone Mayr, maestro e fondamentale sostegno del compositore locale. Nel primo caso ricorrono, festeggiati ormai ovunque, il duecento anni dalla nascita, nel secondo i duecentocinquanta. Per affrontare con accuratezza, musicologica in particolare, i vari anniversari, il festival si è inaugurato, anticipatamente, nel giugno scorso con Ginevra di Scozia di Mayr, in forma di concerto, ed è proseguito a inizio settembre con Il trovatore di
Giuseppe Verdi. Nel frattempo hanno avuto luogo anche conferenze, proiezioni e concerti da
camera, cui si aggiungeranno nelle prossime settimane balletti, corsi di formazione e visite guidate. Come ogni anno, dunque, il programma è fittissimo, pur ruotando attorno alle produzioni liriche donizettiane che fungono da perno catalizzatore dell'intera stagione. Tanto più se queste produzioni riprendono titoli assenti da molto tempo, come nel caso di Maria de Rudenz e Il furioso all'isola di San Domingo. Maria de Rudenz, come il Belisario proposto nella passata edizione del festival, venne composta per il Teatro La Fenice di Venezia e debuttò il 30 gennaio 1838. L'accoglienza non fu delle migliori, anzi siamo al cospetto di uno dei più violenti insuccessi della carriera donizettiana, nonostante, come spesso accade, il giudizio del pubblico veneziano sia poi mutato nel giro di poche repliche. Ciò che infastidì gli ascoltatori dell'epoca fu il soggetto sanguinario del quale si servì
Salvadore Cammarano per il libretto dell'opera. Il compositore era stato a Parigi, nei primi mesi del 1835, per montare Marino Faliero e con tutta probabilità aveva assistito al mélodrame di Auguste Anicet-Bourgeois e Julien de Maillian La nonne sanglante, inscenato il 17 febbraio di quell'anno nel Théâtre de la Porte Saint-Martin e comprendente, com'era in voga allora, la musica di Alexandre Piccini. Donizetti era affascinato dagli argomenti di taglio forte e audace ma aveva qualche perplessità in merito al dramma francese che gli parve, stando ad alcune lettere, anche troppo grandguignolesco. Allo stesso tempo egli era consapevole del successo ottenuto in Francia dalla pièce, che aveva colpito profondamente il pubblico, in particolare per la scenografia e gli effetti speciali, lasciando tuttavia attonita la critica per la trama definita "incubo", "stridente", "abominevole".

La vicenda, epurata da Cammarano, è assai ingarbugliata e sostanzialmente basata su una serie di omicidi. Maria, creduta morta per lo zelo omicida dell'ex marito, ricompare dopo un anno per raccogliersi sulla tomba del padre, prima di prendere i voti. Compreso l'imminente matrimonio di Corrado, suo ex sposo, con la cugina Matilde, nel frattempo proposta come unica erede, l'eroina minaccia di diffamarlo rendendo pubblica la notizia secondo cui egli sarebbe figlio dell'assassino Ugo di Berna, morto impiccato. Corrado oppone resistenza all'amore di Maria che, per gelosia, afferma di voler uccidere la rivale. L'uomo, in un impeto di rabbia, la trafigge con un pugnale. Maria accusa se stessa dell'accaduto e viene creduta morta. Corrado può apprestarsi a sposare Matilde ma prima viene sfidato a duello da Enrico
il quale è informato della vera identità e nascita del fratello. Corrado lo uccide e al ritorno ode i gemiti della moglie, colpita nel frattempo da Maria che si è salvata e non è uno spettro come gli astanti credono. Ella, compiuta la propria vendetta, si strappa le bende e riapre le ferite che la conducono a morte. Come si evince dalla trama la primadonna necessita di un'interprete dalla forte personalità. Nell'edizione bergamasca Maria Billeri è una sanguigna protagonista: il soprano italiano ha piena confidenza con il repertorio della seconda metà dell'Ottocento che ha forgiato profondamente il suo temperamento. La Billeri ha un volume prestante, non sempre controllato nell'intensità, e un'emissione spesso aggressiva che s’adatta solo in parte al repertorio donizettiano. Ha però dalla sua la capacità di rendere umano il personaggio, con i suoi limiti e i suoi punti di forza. Le sfumature vocali, sovente messe in difficoltà dall’agilità richiesta, riflettono il dipanarsi della vicenda e colgono i mutevoli stati d’animo dettati dalla personalità complessa della Rudenz. La voce della Billeri non è sempre omogenea, con udibili problematiche nell’intonazione, ma possiede colore interessante e personalità. Il temibile, ma psicologicamente labile, Corrado Waldorf è affidato a Dario Solari, baritono dall’impronta donizettiana (il più aderente al repertorio nel cast bergamasco) ma dalle condizioni vocali non ottimali. Solari palesa infatti alcune problematiche tecniche non trascurabili, in particolare l'opacità nell’emissione, la difficoltà in zona acuta, con alcuni suoni strozzati e poco squillanti, e, sul versante interpretativo, una certa genericità nella caratterizzazione. Con una più oculata scelta di repertorio e un approfondimento tecnico, Solari potrebbe mettersi in evidenza per le qualità non comuni del proprio strumento. Migliorato, rispetto ad alcune prove passate, ma non del tutto convincente il tenore Ivan Magrì che affronta stoico il ruolo si Enrico su una sedia a rotelle, a causa di un incidente occorsogli durante la prova generale (nella terza parte dell'opera Luigi Barilone, regista assistente, lo sostituisce nei movimenti in scena). È visibile lo stato alterato di salute (durante la prima parte si nota una smorfia dovuta al dolore) ma nondimeno il cantante riesce a venire a capo del proprio impegno. L’emissione non è delle più curate e anche il registro acuto è spesso poco a fuoco tuttavia le passate difficoltà d’intonazione
sembrano parzialmente superate e la voce è più tonda, generosa, benché denoti difficoltà al termine della serata. Viste le condizioni del cantante la prova è stata più che buona. La giovane Gilda Fiume ha convinto nella parte di Matilde di Wolf grazie ad uno strumento aggraziato e tecnicamente corretto. Vocalmente prestante Gabriele Sagona, Rambaldo efficace. A completare il cast Francesco Cortinovis, il cancelliere di Rudenz. In merito alla concertazione di Sebastiano Rolli, recentemente udito nella produzione di Maria Stuarda nel teatro sociale di Rovigo, si notano alcuni scollamenti con il palcoscenico, mentre il rapporto con l’Orchestra del Bergamo Musica Festival non è sempre ben delineato. Le idee musicali risultano interessanti e personali, sebbene le dinamiche prediligano facilmente una prestanza fonica a tratti troppo presente. Stranamente anche il coro, preparato da Fabio Tartari, si è mostrato poco solerte e piuttosto impacciato, specie tra le voci femminili.

A distanza di qualche tempo dal Don Pasquale (dicembre 2010), il direttore artistico del Festival Donizetti si cimenta nuovamente con la regia d’opera. Abbandonato il titolo comico, oggi Francesco Bellotto incupisce ulteriormente la vicenda spostandola in una casa di cura mentale. Corrado vi si trova rinchiuso a seguito degli eventi sanguinari che l’hanno destabilizzato e provato nel fisico e nella mente. Se all’inizio dell’opera lo spettatore non coglie subito gli spunti offerti dal regista, con il procedere dello spettacolo comprende i particolari i quali lo conducono ad una maggiore coscienza delle intenzioni e della lettura di Bellotto. Certo è che i personaggi non paiono tutti ben caratterizzati: a fronte di una protagonista delineata come un’implacabile ossessa, tutta scatti convulsi e gestualità esagerata (forti i richiami al cinema muto), vi è Corrado che manca di tratti personali forti e precisi, ciò anche a causa dell’interpretazione scarsamente convinta di Solari.
Le masse corali commentano con evidente distacco la vicenda nella quale si inseriscono seguendo istruzioni poco precise. Le scene di Angelo Sala, che si occupa anche dei costumi (nel caso della Rudenz una tonaca per tutto lo spettacolo), sono claustrofobiche e, in relazione al taglio voluto dal regista, rappresentano il manicomio, come anche il castello di Rudenz, con strutture rigide, geometriche: scalinate che sottolineano il groviglio delle coscienze e delle menti, pareti movibili sulle quali vengono proiettati, a mo’ di fantasmagoria (altro richiamo alla storia del cinema), i ricordi di vita vissuta di Corrado. Le luci sono di Claudio Schmid.

Peccato che questo titolo, molto raro nella programmazione teatrale, nasca e muoia a Bergamo a beneficio del prossimo Furioso all’isola di San Domingo che al contrario verrà rappresentato in molti teatri del nord Italia.

Benché la sala non potesse dirsi esaurita, il successo è stato pieno.