Parola e suono, Apollo e Dioniso

di Roberta Pedrotti

In collaborazione con la Biennale Musica di Venezia, per la stagione sinfonica del Comunale di Bologna, un raffinatissimo concerto diretto da Roberto Abbado propone un programma contemporaneo dedicato al rapporto fra musica e linguaggio, fra parola, fonema, intonazione, forma e pura materia sonora. Valentina Coladonato si è distinta come voce solista in Berio, mentre il coro di voci bianche del Comunale ha brillato in una prima esecuzione assoluta di Claudio Ambrosini. Chiudeva la serata la sola orchestra con il restauro operato da Berio sui frammenti dell'incompiuta Decima Sinfonia di Schubert.

BOLOGNA, 8 ottobre 2013 - Dopo la pausa estiva la stagione sinfonica del Comunale di Bologna riprende con un evento il cui respiro non è forse stato pienamente recepito dal pubblico degli abbonati, non troppo folto in un Auditorium Manzoni comunque concentratissimo all'ascolto. Il programma, ben assortito e stimolante, meritava grande attenzione, ma dobbiamo purtroppo riconoscere che persiste una certa resistenza, assolutamente trasversale dal punto di vista anagrafico, verso la musica contemporanea, che pare riservata alla cerchia dei fedelissimi e degli addetti ai lavori. Una distinzione talvolta netta e di reciproca chiusura fra due pubblici che invece trarrebbero indicibili vantaggi dall'assottigliarsi delle barriere che pure persistono anche all'interno della cosiddetta musica colta. Una maggiore apertura mentale significa sempre una maggior capacità di comprensione, godimento e discernimento critico. Siamo, dunque, in un periodo di fortunate concomitanze, fra diverse istituzioni cittadine, d'iniziative dedicate alla musica degli ultimi cento anni e il concerto dell'8 ottobre ne è stato uno dei vertici, se non altro per la collaborazione con la Biennale Musica di Venezia, dove aveva debuttato tre giorni prima. Innanzitutto, come già si accennava, la locandina accostava tre composizioni legate da fili sottili ma ben evidenti e intriganti, che intrecciavano una riflessione sul linguaggio, le sue forme, i suoi limiti e i suoi poteri, sull'idea di frammento inafferrabile e di un mondo sonoro da cui possa emergere una forma. Materia dionisiaca e composto logos apollineo che trasecolorano l'uno nell'altro in proteiforme alternanza o in illuministica evoluzione. In apertura, Epiphanies per voce femminile e orchestra di Luciano Berio, revisione del 1991, determinata nella sequenza, delle Epifanie (1959/61, riviste poi nel '65), episodi orchestrali e vocali il cui ordine era in origine lasciato alla discrezione degli interpreti. Da una suggestione di Joyce (epifania come narrazione di “a sudden spritual manifestation”) sviluppata nelle proposte letterarie di Umberto Eco, Berio intona sette frammenti di Proust, Machado, lo stesso Joyce, Sanguineti, Simon e Brecht, tutti in lingua originale e completamente avulsi dal loro contesto. Sono puri suoni e cedere alla tentazione, pure forte, di seguire i testi sul programma, seguirne il senso, di tradurli mentalmente, sarebbe un errore. Conta la parola di per se stessa, il suo emergere nel discorso orchestrale, il suo dipanarsi come prosodia musicale in diversi stili, dal cantabile più disteso, al sillabato, al puro parlato. Valentina Coladonato dimostra dedizione e duttilità da autentica specialista in questo fittissimo dialogo fra voce e orchestra, sottile e surreale percorso intellettuale, ottimamente sostenuto da Roberto Abbado, cui questo repertorio risulta particolarmente congeniale. Dalla parola letteraria vissuta come puro suono quasi strumentale, alla parola alata d'ispirazione omerica, logos magico e possente che dalla lallazione, dall'infantile balbettio nel quale i fonemi si formano e vengono dominati, arriva all'espressione. Questo è, grossomodo, il soggetto di Fonofania, lallazione per coro di voci bianche e orchestra di Claudio Ambrosini, che proprio in questa esecuzione veneziano-bolognese ha avuto il suo debutto assoluto. Pezzo raffinato, intelligente, splendidamente eseguito dai piccoli cantori felsinei preparati da Alhambra Superchi, ha mostrato il fianco solo nel confronto con l'acustica del Manzoni: se, infatti, la prima articolazione di suoni elementari che ci giunge dal fondo della sala, sorgendo sottile e arcana dal tessuto orchestrale, è verosimilmente eterea, nel finale il trionfo della parola, l'apice del crescendo anche orchestrale, non riesce a lasciare il debito spazio al canto, sempre intonatissimo e limpido, dei fanciulli, che rimangono un po' troppo in secondo piano. Non si tratta però di una limitazione che offuschi il valore, ben altrimenti evidente, della composizione. Non ci sono parole nell'ultimo brano in programma, ma Rendering per orchestra, ovvero il restauro che Luciano Berio operò sui frammenti incompiuti della Decima Sinfonia di Schubert, rappresenta pure una riflessione sul linguaggio, nella forma della struttura logica della sinfonia classica. Ne permangono, dagli abbozzi, ora periodi compiuti ora singoli motti, che emergono da un tessuto connettivo che il compositore italiano, con una concezione quasi visiva ben resa dal titolo, ispirato alla terminologia grafica, rende neutro, diafano, caratterizzato dal suono spettrale della celesta. In questo clima sospeso emerge il testamento di Schubert, ricco di suggestioni che si fanno ancor più vivide in questa forma frammentaria. Magnifico soprattutto l'Andante centrale, di cui Berio sviluppa le suggestioni contrappuntistiche con un'orchestrazione che lascia intuire legami sotterranei e profetici fra Schubert e Mahler. Travolgente il movimento forse più celebre, l'Allegro finale, trionfante e luminoso, per contrasto, ma non privo di volute ambigue. Anche qui l'orchestra del Comunale e Roberto Abbado confermano l'eccellente qualità esecutiva di tutta la serata. Grandi applausi finali, e soprattutto la sensazione, uscendo dalla sala, di non essere stati solo assorti in un ascolto passivo, ma di essere partecipi di una riflessione che non si interrompe alla fine del concerto, di aver vissuto ancora l'arte come un fatto intellettuale e stimolante senza essere ostico e inaccessibile.