Rugantino? Lo riscriverei tutto

 di Roberta Pedrotti

Trovajoli racconta

Pensieri, storie, emozioni, piccoli fatti e grandi incontri di «...questo ombroso, scorbutico, insopportabile soggetto chiamato Armando...»

a cura di Alfredo Gasponi

Milano, Rugginenti Edizioni, 2014

202 pagine, più 32 di immagini

ISBN 978-88-7665-648-4

Quella che Alfredo Gasponi ha raccolto e cui ha amorevolmente dato forma è una sorta di rapsodia biografica, una fantasia di ricordi che si apre come un fiore o un gioco pirotecnico dall'ordine delle informazioni genealogiche e della ricostruzione dei primi anni fino al gemmare di aneddoti, considerazioni, episodi, creazioni e incontri.

Il maggior pregio del libro è proprio questo, quella sua forma poco accademica di appunti ordinati, ma non troppo, attraverso i quali sembra di trovarsi realmente a tu per tu con Armando Trovajoli.

Uno splendido incontro, il cui valore può essere apprezzato a più livelli, attraverso diverse storie che si intrecciano in una.

Sullo sfondo scorre la Storia, seppur citata esplicitamente di rado nell'arco di un racconto di ben oltre novantacinque anni. I nonni paterni erano un italiano e un'inglese in Egitto (nonna Enrichetta presente anche alla prima di Aida al Cairo) e chiamarono i loro figli, in base al paese di nascita, Italiano, Africano ed Egizia. Un piccolo scorcio di quotidianità nel secondo Ottocento ancora coloniale. Il piccolo Armando nasce e cresce a Roma, vive in prima prima persona, da vicino, il regime, coltiva la sua musica e, anche e soprattutto durante il servizio militare, un sano antifascismo, che però ci viene raccontato quasi per inciso, come naturale disposizione d'animo di un uomo che possa dirsi tale, per di più artista e antimilitarista. Il fiero ribrezzo per quel romagnolo calvo torna, però, come un'eco nelle ultime pagine, quando il pensiero si posa su un brianzolo che sfugge la calvizie con la tecnologia. Proprio nel suo essere lieve, Trovajoli risulta particolarmente vibrante, anche quando esprime eguale ribrezzo per i valori che costoro rappresentano.

C'è la storia privata, trattata con schiettezza e pudore affettuoso, ricordando amicizie profonde e incontri meno fortunati. Non parla quasi di una vita privata magari non appariscente, ma certo turbinosa (cinque figli da cinque donne diverse), riservando la delicatezza di poche righe discrete alla prima moglie Anna Maria Pierangeli, scomparsa prematuramente e tragicamente pochi anni dopo il divorzio, e un'appassionata, toccante dichiarazione d'amore alla seconda e ultima moglie Maria Paola.

La stessa delicatezza è nel parlare degli amici (perfino quando il ricordo sfiora la cronaca nera, come per il caso Montesi), tanto che così dolcemente accennate o narrate le scomparse di Bice Valori, Sandro Giovannini, Gigi Magni, Pietro Garinei lasciano percepire lo sfumare di un tempo intimo, che però è stato anche grandioso.

E c'è, quindi, la storia dello spettacolo e del costume, c'è la dolce vita, c'è il lusso romano, ci sono Sordi, Mastroianni, Totò, Landi, Canfora, i grandi registi, il fraterno “compagno di banco” Scola, il mefistofelico Risi, il colto Lattuada, un Fellini invero geloso e permalosetto (per lo meno quando si allestì Ciao Rudy con il “suo” Marcello). Sgorgano immagini preziose, dettagli e istantanee dell'età dell'oro del nostro cinema e del nostro teatro, un'età che sembra aver fatto scuola in tutto il mondo tranne che in patria. Ma, forse, era semplicemente un ciclo storico irripetibile.

Veder la Rai chiudere iniziative musicali straordinarie per privilegiare aspetti più commerciali, d'altra parte, non è prerogativa dei nostri ultimi tempi, come ci racconta la parabola dell'orchestra jazz guidata da Trovajoli per la radiotelevisione di Stato negli anni '50. Tuttavia resta la nostalgia per un'epoca di straordinaria vitalità e creatività, un'epoca in cui la consuetudine e un'intensissima attività teatrale consentivano la formazione di una moltitudine di preparatissimi professionisti dello spettacolo fra i quali poterono spiccare personalità ineguagliate.

È brutto apparire passatisti, laudatores temporis acti, e Trovajoli certo non lo è, sa lodare interpreti di ogni epoca e nelle critiche s'intende parimenti equilibrato, anche se, è evidente, preferisce glissare o non far nomi. Racconta perfino, con signorile franchezza e profondo rispetto, di non aver mai amato troppo Karajan. Ma un'invettiva amara Trovajoli la lancia e a quella, senza essere necessariamente vedovi del tempo che fu, ci associamo: l'invettiva a un mondo dello spettacolo dove tutto sembra facile, dove la formazione e la gavetta si bruciano magari nello spazio di un programma televisivo in cui “i giovani artisti son lasciati liberi di insultare i loro maestri”.

Il mondo che Trovajoli ci racconta è un mondo dove magari i professori di conservatorio ancora trattano con sufficienza i musicisti jazz, ma dove chi scrive per il teatro musicale ha alti ideali, spiccata personalità, pratica competenza del lavoro di palcoscenico, il riferimento della tradizione del musical anglosassone come dell'opera italiana ed europea, in cui si citano con rispetto Cimarosa e Gluck, Bach e Rossini. Il patrimonio culturale è patrimonio comune di chi fa spettacolo, ciascuno rispetta il proprio lavoro con una preparazione, una serietà e una qualità che permette, magari, a Johnny Dorelli di giocare a cantare (con un'orchestra leggera di livello) “Che gelida manina” senza pretese tenorili fuori luogo, ma in nome di un diffuso amore e di una generale conoscienza dell'opera. Esattamente come Magda Olivero o Mario Del Monaco possono apparire al Musichiere e cantare una canzone, o Alberto Sordi duettare ora con Mina ora con i divi del melodramma.

Proprio parlando di questo mondo, dei successi e dei rimpianti, Trovajoli esprime riflessioni e valori che costituiscono, forse, il cuore più autentico del suo racconto: la sua sensibilità e la sua etica artistica. Talento precoce e straordinario, è insieme affamato, vorace di cultura musicale, senza confine alcuno, e reverente verso la storia, la tecnica, la grande tradizione classica. Non si mostra mai soddisfatto di sé, ma non si avverte la posa di una studiata modestia, bensì un'autocritica fondata sulla sconfinata ammirazione per l'arte. Eppure, e lo racconta con orgoglio, aveva ottenuto un diploma brillantissimo al Conservatorio di Santa Cecilia, con l'invito immediato per un recital. Eppure Luciano Berio lo ammirava e lo frequentò, purtroppo senza arrivare a realizzare tutti i progetti comuni. Eppure Arturo Benedetti Michelangeli gli fu amico, lo stimava, gli propose di lavorare insieme. Armando racconta il rammarico di non aver mai avuto il coraggio di diventare un pianista professionista, il disagio nel coniugare l'innato linguaggio jazz con il, pur amatissimo, rigore bachiano, la rinuncia a studi di composizione e contrappunto accademici. È una questione di occasioni e di carattere: incredibilmente dotato, ha incontrato le persone giuste al momento giusto e non ha mai avuto – a suo stesso dire – il coraggio di impegnarsi in un tipo di studio e carriera differente, non si sarebbe mai sentito a suo agio come “concertista in frac”. Questa è stata la sua fortuna, e se ignorante (lui che  caparbiamente e furiosamente studiò Bach e i classici) diceva di essere, beata e benedetta sia l'ignoranza che ci ha regalato, fra i tanti, l'ironia e la tragedia, il camuffamento e l'intreccio stilistico gustosissimo di quel capolavoro che La Tosca realizzata con Magni, Vitti, Proietti e Gassman!

Ma non era ignoranza, non della specie del dilettantismo proliferante e pago di se stesso, almeno. Un'ignoranza socratica, semmai, quella ricerca che rende chi sa di non sapere più sapiente d'ogni altro uomo. Il suo istinto musicale insaziabile non poteva essere imbrigliato nelle maglie accademiche e non avrebbe mai potuto dirsi soddisfatto e completo. Sembra quasi, infatti, che nemmeno lui stesso, in un'attività febbrile che dalla prima infanzia è proseguita fino agli ultimi giorni, abbia saputo afferrare la natura nel suo talento, mentre la sua grandezza, ai nostri occhi, appare proprio nella versatilità con cui si è manifestato di fronte agli incontri e ai casi che la sorte gli ha posto innanzi: il jazz, il cinema, il teatro.

E allora, val la pena di leggerli questi suoi ricordi che si divorano in poche ore. Per tutte le storie che ci consegnano, per l'etica del teatro, della musica, dell'arte che ci restituiscono.