Vita e arte attraverso le censure

 di Roberta Pedrotti

Gabriele Moroni

La censura sulle opere di Verdi

171 pagine

ISBN 978 151 71 56 886, 2015

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Tutti credono di conoscere Verdi. Troppi, almeno: è la condanna degli artisti che hanno raggiunto la massima popolarità, trasformandosi in icone, in simboli universalmente noti e riconosciuti. Ma conoscere veramente Verdi non significa, ovviamente, sapere a memoria le sue opere – o parte di esse – e possederne una buona collezione discografica; non significa brandire santini con il motto “Pianse ed amò per tutti”, né tantomeno sbandierare un amore geloso che si avventa feroce contro chiunque legga l'opera del genio diversamente dalle proprie convinzioni.

Ogni forma d'amore, dalla più ingenua a quella maturata in studi inesausti, da quella curiosa e avventurosa a quella abitudinaria e rassicurante, è soggettiva e personalissima. Ma la complessità del personaggio che l'ha ispirata, tridimensionale e non appiattito in un'illustrazione, quella non cesserà mai di trovare nuove chiavi di lettura per una continua scoperta, un orizzonte sempre diverso.

Una di queste prospettive può ben essere quella del rapporto con la censura, cui Gabriele Moroni dedica la sua monografia raccogliendo con cura testimonianze e documenti sulla legislazione nei diversi stati preunitari e delle traversie vissute da Verdi, dai suoi librettisti e dagli impresari. L'assunto di base è fondamentale e merita di essere sempre tenuto presente: la censura almeno per tutto il primo Ottocento era un dato di fatto, l'artista era da sempre conscio di potersi muovere entro determinati confini, visti, si può dire, come naturali. Si scriveva quel che si poteva, per lo più senza nemmeno troppi problemi, se non fosse che ogni status quo, di fronte ai mutamenti della società, arriva a un punto di rottura, che ha coinciso con la carriera di Giuseppe Verdi. La Storia non aspetta uomini della provvidenza, ma predispone sempre il terreno per chi la sappia interpretare: Verdi si muove inizialmente con cautela, ma, man mano che la sua coscienza artistica – insieme con il suo potere contrattuale – cresce, le maglie della censura, che le tensioni politiche stanno stringendo in una sorta di ultima fiammata, gli vanno sempre più strette. Ecco, dunque, che negli interventi e nei dibattiti fra i censori, eminenze grigie e meri burocrati, nelle mediazioni di librettisti e impresari, nelle battaglie verdiane possiamo osservare non solo l'evoluzione di un genio del teatro musicale (e del teatro e della musica tout court), ma anche uno spaccato della società italiana (ed europea) nel corso nel XIX secolo.

Lo stile di Moroni è per lo più compilativo, attento raccoglitore di riferimenti e documenti sparsi fra biografie e monografie per ricostruire un percorso organico nella prospettiva della censura. Senza dubbio il gusto maggiore ce lo dà, dunque, lo scorrere come in un'antologia le lettere verdiane attraverso una sorta di corsa a ostacoli burocratica, già ben chiarita nelle sue forme nell'interessante secondo capitolo, Norme e legislazione, e approfondita nell'appendice documentaria. Si apprezza altresì lo sguardo gettato sulla situazione censoria inglese (massime intorno ai Masnadieri) e russa (rigidissima in fatto di religione, sì che La forza del destino costituì un'eccezione eccellente forse imposta dallo stesso Zar).

Contestualizzare le dichiarazioni estetiche verdiane è fondamentale, se si pensa a quante vengono estrapolate e sbandierate per costringere il Nostro a farsi alfiere di questa o quella causa di melomani contemporanei: ecco che una presa di posizione in favore dello studio della storia della musica e del contrappunto nei conservatori (“torniamo all'antico e sarà un progresso”) è diventato vessillo dei passatisti ad ogni costo; ecco che il rifiuto di riprese censurate che ponessero, di fatto, la sua musica su nuove drammaturgie sciocche e innocue (il Duca che canta l'elogio della fedeltà, Gilda illibata e salva) o di eccessi primadonneschi che interpolassero arbitrii varii nelle partiture (Dionilla Santolini usava arricchire la parte di Federica nella Luisa Miller con una cavatina dalla Saffo di Pacini) diventa buono per condannare indistintamente ogni interpretazione che non sia un eterno ritorno dell'eguale.

Chissà perché, invece, quando si liquidano sue pagine in base a valutazioni estetiche astratte (vedi il recente caso di Giovanna d'Arco, ma anche la cabaletta di Germont padre) non si ricorda come Verdi affermò anche che le sue note “belle o brutte che siano” non sono mai state scritte a caso, hanno sempre un senso.

La sintesi documentaria ricercata da Moroni stimola l'appetito e lascia il desiderio di ulteriori riflessioni e approfondimenti su vicende e versioni, quasi l'intento fosse soprattutto di una panoramica generale sul tema, senza porsi l'obbiettivo della completezza. Stupisce, per esempio, che accarezzando le manomissioni al testo di Giovanna d'Arco si faccia riferimento solo all'omissione del nome di Maria e non al coro dei demoni (l'allettante “Non è brutto/ qual per tutto/ è costrutto/ Belzebù” diventa il nichilista “O figliuola/ ti consola/ è una fola/ Belzebù”) né tantomeno all'imbarazzante interrogatorio di Giacomo (“Pura e vergine sei tu?” che diventa “Non sacrilega sei tu?”). Altrettanto stupisce che si riporti come la censura romana in Rigoletto impose di sostituire “Da sedere” a “Una stanza” nelle richieste del Duca a Sparafucile e non si faccia cenno al fatto che quella stanza a sua volta sostituiva un ben più esplicito “Tua sorella”, forse la censura più celebre dell'intero catalogo verdiano [se non nel paragrafo introduttivo del capitolo terzo, come esempio di autocensura preventiva. cfr]. Riteniamo, poi, che la tabella dei titoli originali e alternativi delle opere verdiane in appendice si sarebbe giovato di una qualche annotazione o di un paragrafo introduttivo, giacché a casi dovuti a documentate censure (Orietta di Lesbo per Giovanna d'Arco, Viscardello o Clara di Perth per Rigoletto) si mescolano semplici abbreviazioni (Nabucco per Nabucodonosor), traduzioni (Jérusalem/Gerusalemme), traduzioni e rielaborazioni anche profonde (Don Carlos/Don Carlo) fino all'inversione di titolo e sottotitolo dovuta semplicemente a convenienze di mercato (il vecchio libretto Il finto Stanislao di Romani, già musicato da Nicolai, fu ribattezzato Un giorno di regno ossia il finto Stanislao per sottolineare la novità della musica, ma l'opera verdiana circolò anche con il sottotitolo/titolo originario).

Ci si permetta, infine, un'osservazione: nel primo capitolo si riferiscono aneddoti sulla censura teatrale fra cui quello citato nel volume Roma che ride. Settant'anni di satira (1801-1870) di Emilio del Cerro (1904) sui versi “Amo la patria e intrepido | il mio dovere adempio” tramutati in “Amo la sposa e intrepido | il mio dovere adempio”. È vero che la fonte non riporta l'opera di riferimento, ma è facile riconoscere il "non precisato melodramma" in un titolo celebre come L'italiana in Algeri, i versi in una storpiatura dell'incipit di “Pensa alla patria”, che, peraltro, è proprio documentato come “Pensa alla sposa” in un libretto romano del 1819.

Come si vede, la storia della censura, che è storia anche di arte politica e società, è così vasta e articolata che non si potrà mai finire di scriverla.