Una speme lusinghiera mi conforta nell'amor

 di Andrea R. G. Pedrotti

Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi

Treasures of Bel Canto

tenore Rolando Villazon

mezzosoprano Cecilia Bartoli

orchestra del Maggio Musicale Fiorentino

direttore Marco Armiliato 

CD Deutsche Grammophon 479 4959, 2015

Molto spesso pensiamo al pagliaccio quasi fosse una figura irreale, che allieta la nostra infanzia e cessa di esistere, quando non vi sia più necessità del riso. Sarebbe significativo cominciare a pensare a tutto quello che sta dietro queste figure dal naso rosso, i grandi papillon e le scarpe sproporzionate. Dietro a essi si cela sovente una grande melanconia, capace di scadere nell'angoscia. Il pagliaccio vive del suo pubblico, senza di esso resta solo. Rolando Villazòn non ha mai fatto mistero della sua passione per la giocoleria, come egli stesso racconta nel suo romanzo, Malabares, e con il suo impegno nella tribù dei Roten Nasen, negli ospedali pediatrici di molte città. Villazòn ha vissuto l'angoscia dell'esser stato privato del suo pubblico, per rinascere a nuova vita, non più con la giovanile spavalderia d'un tempo, ma con la coscienza di chi ha rischiato di lasciare in perpetuo la sua platea, più introspettivo, profondo e filosofico di quanto non lo fosse prima.

Lo splendido disco Treasures of Bel Canto nel suo programma, intelligente e raffinato come il suo interprete, rappresenta una sorta di percorso di vita di questo straordinario artista. Un percorso che ha suo principio già dalla bella grafica, con il celebre tenore messicano, ritratto in un'istantanea seppiata, seduto su un pontile, o a camminare verso una destinazione lontana. Un percorso sapientemente studiato che va dall'apollineo di Bellini al dionisiaco di Rossini - come ricorda lo stesso Villazòn nel presentare il disco-, passando dalla passione di Giuseppe Verdi e dal sospirante romanticismo struggente di Gaetano Donizetti. L'apollineo è più riflessivo e razionale, riflette su quale sarà l'effetto di ogni sua azione; al contrario il dionisiaco si abbandona all'ebrezza. Un apollineo può sicuramente avere il pregio d'una capacità di scernimento maggiore, ma anche il suo struggimento rischia di condurre al cinismo, mentre il dionisiaco può, nel tormento, arrivare a distruggersi nel vizio e nella sregolatezza. Villazòn è uno straordinario esempio di entrambe le macrocategorie umane: ragiona, ma per portare gioia e sentimento come nessun altro, sommo interprete della parola scritta e musicale. Abbiamo avuto la recente fortuna di assistere a una rappresentazione di Werther con Villazòn protagonista [leggi la recensione] e abbiamo avuto conferma, una volta di più, come egli rimanga il miglior fraseggiatore di passioni. L'artista di Città del Messico è unico nel trasfigurarsi in maschera di sentimento dal vivo come in registrazione.

Tutti i brani del disco sono indispensabili al percorso di vita che Villazòn ci racconta con i suoi palpiti e lo scorrer del suo sangue, ma - qui torna la componente apollinea del suo animo - con uno studio interpretativo, filologico e filosofico di alto profilo. Si parte con Vincenzo Bellini e la scelta di iniziare con l'aria da camera “Mi rendi pur contento” (arrangiata da Efrain Oscher) è mirabile, perché solo nel testo di essa si evince già il senso di struggimento iniziale fatto di “pavento” e “palpiti”, per giungere alla breve “Malinconia, ninfa gentile” (arrangiata da Robert Sadin). È nel secondo brano che Rolando Villazòn si lascia alle spalle la paura e si abbandona allo sgomento, incerto per il futuro, come nelle immagini della copertina del disco. Splendido in questo brano l'accompagnamento orchestrale di Marco Armiliato, con una morbido, ma vibrante e soffuso, uso degli archi. La malinconia porta al desiderio etero e terreno (apollineo e dionisiaco). Villazòn accarezza le parole con arte impareggiabile, colmandole di significato, dal “linguaggio dell'amor”, per passare al “fervido desir”, fino alla “speme lusinghiera”, che potrebbe essere ingannatrice, ultimo dei mali contenuti nel vaso di Pandora. Questo è stato il bel passaggio semantico offertoci dalla sua interpretazione di “Vaga luna, che inargenti” (arrangiata da Daniel Barnidge).

Fra le arie da camera belliniane, citate in questo disco, si fa preferire - ed era arduo cimento - la passionale “Torna, vezzosa Fillide” (arrangiata da Robert Sadin), quando cominciano le avvisaglie di riscatto dell'animo del cantore, il quale si pone domande, augurandosi con sentimento un ritorno, forse una palingenesi, anche vocale. Villazòn nell'ultima parte del brano pone in luce la mirabile commistione della sua attuale tecnica vocal, fra impeto e assoluta precisione musicale, con variazioni di colore e sicure salite al registro acuto, così come vibranti discese verso le tessiture più gravi. Bellissimo l'acuto finale, che fa da lancio al giunger di Giuseppe Verdi e alla passione pura e sanguigna.

Prima aria da camera del genio di Busseto è la splendida “Deh, pietoso, o Addolorata” (arrangiata da Robert Sadin), che evidenzia lo sconforto dell'animo, dopo l'invocazione alla dipartita del brano che l'ha preceduta. Il concetto di morte, di fine e di paura verso l'infinito prosegue in “Non t'accostare all'urna” (arrangiata da Robert Sadin), ma la speranza giunge e l'umore, così come lo spirito, pare risvegliarsi in “Il poveretto” (arrangiata anch'essa da Robert Sadin), che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare dal vivo nel bel concerto milanese del 25 maggio 2014 [leggi la recensione]. Qui Villazòn rimane melanconico e introspettivo, ma la vitalità torna ad affacciarsi, senza, tuttavia, mai esplodere appieno. Le speranze precedono sempre un aspro cimento, innanzi all'imprevedibilità completa del destino che ci troviamo davanti e che è vittima di variabili non pienamente amministrabili. “Il mistero” (arrangiata da Robert Sadin) è una sorta di riflessiva quiete prima della tempesta, quella stessa "che in fondo cova” nei versi di Felice Romani. Anche qui il tenore messicano è maestro nella gestione degli accenti e nell'espressione.

Tornano le passioni estreme del romanticismo europeo, sublimate dall'eros e thanatos donizettiano. Quale miglior scelta in questo percorso, se non “L'amor funesto” (arrangiato da Daniel Barnidge): angeli, sospiri, palpiti, in un climax discendente che porta al demoniaco, al misero, all'infelicità e alla morte, o forse, alla paura di essa. Rolando Villazòn anche qui è capace, mirabilmente, di condensare tutti i sentimenti dell'animo umano, con sintesi di livello proprio ai grandi. Il funesto deliro di un grido senza pianto conduce a “Una lagrima” (arrangiata da Daniel Barnidge) e a il “Sospiro” (arrangiata da Efrain Oscher). Tutto è dedicato all'oggetto amoroso: la donna non è vista nella sua mera essenza carnale, quanto nella brama sentimentale degli affetti. L'unione alla donna, nello struggimento desideroso traspare dalle perfette scelte espressive di Villazòn, caratterizzate da sfumature di estrema raffinatezza, quanto è estrema la passione in gioia e dolore. Bella l'omogeneità fra i registri in quest'aria che insiste principalmente su una tessitura bassa. Chiusura donizettiana con la rinascita nel rapporto generazionale fra madre e figlio. “La Mère et l'Enfant” (arrangiata da Daniel Barridge) è a sua volta simbolo di passaggio, pur sempre nella melanconia, all'esplosione dionisiaca delle arie rossiniane, ma che ha suo preludio nel più intimo fremito dell'inconscio. La maggiore ampiezza della scrittura orchestrale di “L'esule” (arrangiata da Robert Sadin), porta al compimento della rinascita e la ragione apollinea del principio ha trovato il suo compimento dialettico. Rolando Villazòn pare ricordare un bene perduto (non necessariamente la patria del testo), che si potrà celebrare della celeberrima “Danza” di Rossini, orchestrata con grande originalità, specialmente nell'uso degli ottoni, ancora da Robert Sadin. Qui torna il Villazòn degli inizi, più sanguigno ed estroverso, pura espressione di passione umana. Torniamo alla gioia, come il tenore messicano tornò alla carriera dopo l'incidente che mise a rischio la sua arte, ma i dolori restano in noi, il passato rimane come una cicatrice dell'anima, che non ci deve mai frenare. Nella scelta delle arie da camera non si poteva proporre altro che “La lontananza” (arrangiata da Daniel Barnidge). Il “fido cantor” resta sempre legato all'amata e rammenta con gioiosa profondità i pianti e le sofferenze. Egli è tornato e il cor è sempre più fido. Anche qui Villazòn è allegro, ma non eccede mai nella scanzonatura: ancor giovane, ha raggiunto la saggezza. Ultimo brano del CD con l'intervento della donna, l'arte che si fa materia e Apollo diviene alfine Dioniso. Cecilia Bartoli, altra grande e raffinata artista dei nostri tempi. “Les Amants de Séville” (arrangiata da Robert Sadin) è un duetto splendido, una Tirana pour deux voix, ottima chiusura del programma del disco, che riunisce due astri di arte e umiltà, capaci di tener alta la bandiera della musica e della cultura italiana, anche se non nella terra di Giulio Cesare, Dante Alighieri, Niccolò Machiavelli e molti altri.

Sul podio della precisa orchestra del Maggio Musicale Fiorentino si segnala la felice prestazione del m° Marco Armiliato, che accompagna tutti i brani alla perfezione, con belle scelte dinamiche e di colori. L'ampiezza e l'espressione del fraseggio dell'orchestra può dirsi, a pieno titolo, all'altezza di quello di Rolando Villazòn.

Belle le note al disco di Martin Kettle, impreziosite da numerose citazioni e interventi dello stesso Villazòn.