Il mezzo e il fine

 di Roberta Pedrotti

Leonardo Vinci

Catone in Utica

Cencic, Fagioli, Sancho, Sabadus, Yi, Mitterrutzner

Il Pomo d'Oro

direttore Riccardo Minasi

3 CD DECCA 478 8194, 2015

 Leggi la recensione delle recite da cui è tratto il CD:

Versailles, Catone in Utica, 16/06/2015

Quando mai sarà reso tutto il dovuto merito a Violante Beatrice di Baviera, gran principessa di Toscana e governatrice di Siena, filantropa operosa, protettrice di artisti, letterati e uomini di scienza, attenta alle opere di bene come alle belle arti e i consessi intellettuali (fondatrice di un'Accademia Femminile del Cimento, sostenne apertamente i corrispettivi maschili senesi dei Rozzi e degli Intronati)? Oggi l'influsso del suo operato rimane vivo e attuale e viene costantemente ricordato per la definizione dei confini delle contrade e del regolamento per il Palio.

Quando, però, nel 1728, la devota principessa Violante da Siena si recò in vista a Roma, segnò in maniera formidabile anche la storia della musica. Papa Innocenzo VIII, allora regnante, non era un grande amante delle arti e, già vigente il decreto di Sisto V contro le donne in teatro, aveva proibito ogni tipo di rappresentazione in concomitanza con una disputa con il re di Portogallo. Solo la presenza dell'autorevolissima Violante, accompagnata dal nipote Elettore di Colonia, fece sì che si derogasse al divieto e si allestisse un'opera nuova al Teatro delle Dame su libretto del giovane Metastasio, al suo terzo dramma per musica e primo per Roma.

E il libretto del Catone in Utica rappresenta già uno dei più alti esempi dell'arte e della profondità intellettuale del più grande drammaturgo teatrale italiano mai apparso fino al XX secolo. L'equilibrio politico della disputa fra Catone e Cesare mette in scena con straordinaria vitalità una riflessione d'altissimo profilo, in cui le ragioni di entrambe le parti sono soppesate con un acume e un'umanità straordinarie. La buona fede di entrambi, la fondatezza ponderata delle loro posizioni, il rispetto reciproco sono indubbi, ma non sono dipanati come in un trattato etico politico, bensì fatti vibrare in una trama avvincente, che sviluppa un intrigo anche sentimentale capace di mantenere toni elevati e di non cedere mai allo stereotipo. La nobiltà di tutti i personaggi è un valore, non un limite, e il finale semplicemente straordinario per pathos, compostezza, ideale: Catone, suicida, abbandona la scena morente con un recitativo di toccante dignità; in altri libretti settecenteschi (i vari Bajazet/ Tamerlano, per esempio) lo scandalo della morte scenica verrà contrappesato da una conciliazione finale fra i superstiti e dal convenzionale coro di commiato, mentre in questo caso Cesare resta solo e chiude l'opera con un icastico recitativo.

Ah! se costar mi deve

i giorni di Catone il serto, il trono,

ripigliatevi, o Numi, il vostro dono.

(getta il lauro)

 

La forza del dramma era vieppiù favorita dalla contingenza del citato decreto di Sisto V ancora in vigore nell'Urbe. La costituzione di un cast privo di interpreti femminili, composto per quattro sesti da castrati, comportava innanzitutto un impatto visivo particolarmente imponente. Mentre, infatti, la statura media delle donne era, nel XVIII secolo, inferiore a quella attuale, lo squilibrio ormonale prodotto dalla castrazione causava anche una crescita spropositata delle ossa lunghe, sicché l'iconografia dell'epoca ci restituisce sovente l'immagine di veri e propri giganti a dividere la scena con impennacchiate lillipuziane. Ben diverso e autorevole doveva essere l'effetto di un cast che facilmente superava la media del metro e ottanta di statura.

Vi è poi, e soprattutto, naturalmente, un dato vocale oggettivo, ché i fanciulli destinati alla castrazione erano sottoposti fin dalla più tenera età a studi intensissimi, impensabili per una ragazza, sicché era assai difficile che un'interprete femminile arrivasse agli stessi livelli di specializzazione, rifinitura tecnica e disciplina musicale di un interprete maschile. L'autorevolezza scenica, dunque, andava di pari passo con una incisività e complessità musicale maggiore.

Va da sé che oggi come oggi l'educazione del cantante non si differenzi in base al sesso e che, anzi, una donna si possa trovare in naturale vantaggio, rispetto a un uomo che raggiunga tessiture femminili in virtù della tecnica e non della chirurgia, nel conferire incisività, corpo e pregnanza al suo canto. Tuttavia negli ultimi anni si è affacciata alle scene un'agguerritissima generazione di sopranisti e contraltisti, capaci di tornitura timbrica e di agilità sgranate con una forza impensabile per i colleghi del – pur breve – passato. Così si è resa possibile la costituzione di nuove compagnie tutte al maschile, che, seppur prive dello scarto fisico e tecnico del XVIII secolo, possono far riecheggiare sotto nuovi aspetti e senz'ombra di parodia, la straniante eccezionalità di quel che doveva essere il cast della prima romana. Un cast di tutto rispetto, che vedeva il Carestini nei panni di Cesare, il Minelli in quelli di Arbace e il Farfallino quale Marzia, per non parlare del tenore Pinacci nel ruolo eponimo. Questi, maestri della scuola antica votata all'espressione, all'articolazione del testo, a un virtuosismo chiaro, autorevole e misurato all'affetto, ispirarono a Vinci un'adesione plastica e completa al dramma metastasiano, una partitura priva di cali di tensione e di energia, sempre elevata al pari dei versi nella passione politica, nella lucida riflessione, nel pathos. Un equilibrio perfetto fra pubblico e privato, ideali civili, rispetto, affetti familiari e amorosi; equilibrio ma non omogeneità, ché, senza stuccare o ridondare, il Catone in Utica di Vinci è proprio un capolavoro di forza teatrale perfettamente soppesata e modellata sulle sfumature sottili quanto pregnanti di un testo drammatico che è, nondimeno, un capolavoro.

Il nostro attuale cast maschile allinea nomi di primissima sfera nel panorama attuale, come Franco Fagioli a riprendere i fasti del Carestini quale Cesare e Max Emanuel Cencic nella parte del Minelli, Arbace. Entrambi, l'uno argentino l'altro croato, sono avvantaggiati da una perfetta dimestichezza con la lingua italiana, che consente loro di plasmare nell'accento con forza e intelligenza l'unità fra testo e musica. Fagioli è perfino prodigioso nella grande aria del terzo atto “Quell'amor che poco accende”, un vero incanto di tecnica sopraffina messa al servizio di una sensibilità rara d'artista, ma nondimeno Cencic sa prestare un vigore ardente e, nondimeno, una delicata franchezza sentimentale notevolissimi al principe numida alleato di Catone, caratterizzando a meraviglia ogni suo intervento.

Di fronte a questi due astri di prima grandezza, Valer Sabadus e Vince Yi nei ruoli femminili rispettivi di Marzia, figlia di Catone, ed Emilia, vedova di Pompeo, patiscono una minor confidenza con l'idioma metastasiano, articolato correttamente e con intenzione, ma senza la disinvoltura e la pregnanza dei colleghi. Resta tuttavia rimarchevole, in un contesto d'altissimo livello, l'adesione di timbro e fraseggio all'ethos del personaggio nell'estetica settecentesca, evitando contaminazioni con le categorie posteriori di genere e anagrafe. Stupisce, poi, in Yi la straordinaria duttilità di uno strumento schiettamente sopranile, di facilità e luminosità rare; di contro Sabadus conterebbe in repertorio anche ruoli di tessitura più grave, ma affronta con nonchalance e autorevolezza la scrittura per il soprano Farfallino, ribadendo a sua volta di essere una delle migliori voci del panorama attuale per questo repertorio.

Ai due tenori spettano il ruolo eponimo di Catone e quello di Flavio, legato del Senato di parte cesariana e amante di Emilia: il primo è Juan Sancho, dal quale si esige la massima autorità, dignità e coscienza nella declamazione e nella coloratura. L'impegno, su ogni fronte, è tangibile, e l'esito, se non formidabile, efficace sì da rendere giustizia a un personaggio tanto emblematico. Martin Mitterrutzner è un Flavio gagliardo come si conviene al suo personaggio, giovanile e ardimentoso in politica e in amore.

Riccardo Minasi regge le fila di quasi quattro ore di dramma musicale senza requie, sottile e potente, nobilmente meditato e articolato psicologicamente. Non lo affonda in un'esuberante esteriorità – che pure l'abbondanza di arie agitate potrebbe allettare – ma ne asseconda l'andamento con un'orchestra agile asciutta (il Pomo d'Oro), recitativi assai discreti nello sviluppo del continuo, quasi la forza e la densità del testo non lasciassero spazio maggiore al sostegno armonico, e buon accordo con le voci.

La registrazione, la cura grafica, il libretto d'accompagnamento sono all'altezza dell'importanza dell'opera, di un progetto che coinvolge grandi divi per affermare un concetto fondamentale: che il dramma musicale metastasiano non è una parata stereotipata di virtuosi e virtuose, ma grandioso teatro cantato che, pertanto, sommi artisti esige, non come fine ma come mezzo intelligente.