Che farò senza Euridice

 di Roberta Pedrotti

F. Bertoni

Orfeo ed Euridice

Genaux, Lombardi-Mazzulli, Petryka

Accademia di Santo Spirito di Ferrara

Ensemble Lorenzo Da Ponte

Roberto Zarpellon, direttore

registrato dal vivo a Ferrara, 15 febbraio 2015

CD Fra Bernardo FB 1601729

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Il terribile e, a suo modo, sempre grandissimo Eduard Hanslick riportò in auge, a corollario delle sue riflessioni sul rapporto fra musica e significato, la boutade di Pascal Boyer (1743-1794) secondo cui la melodia di “Che farò senza Euridice” avrebbe potuto egualmente adattarsi al contenuto opposto, il giubilo per il ricongiungimento con l'amata. Paradosso, peraltro, non così raro nella storia della critica e dell'estetica musicale: Giuseppe Carpani ne propone uno pressoché identico, ma su un'aria di Salieri, nell'edizione padovana del 1824 delle sue Rossiniane.

E se non fossero i versi di Ranieri de' Calzabigi – o, nella versione francese, di Pierre-Louis Moline – a mutare, bensì la loro veste musicale?

Un eloquentissimo straniamento accompagna l'ascolto dell'opera – assai breve – che Ferdinando Bertoni presentò al Teatro San Benedetto di Venezia il 3 gennaio 1776 sul medesimo libretto di Ranieri de' Calzabigi musicato da Gluck per la prima volta a Vienna quattordici anni prima. Straniamento acuito dai rimbalzi storiografici relativi all'attribuzione dell'aria “Addio, miei sospiri”, assente in entrambi gli Orfei italiani, inserita in prima istanza nella versione tenorile francese dell'opera di Gluck per il grande Legros come “L'espoir renaît dans mon ame” e di lì resa (“Amour viens rendre”) al registro di mezzosoprano nella rielaborazione di Berlioz, ma attestata, prima di Orfeo, in partiture e di Gluck e di Bertoni. Quest'ultimo dovrebbe esserne, alla fine, il primo creatore, ma ciò che forse più interessa è il clima di continuo scambio creativo in cui il concetto di unico demiurgo dell'opera originale è ancora di là da venire nell'ideale, e qui, comunque, sembrerà destinato a restare a dispetto di una pratica necessariamente molto più mobile. D'altra parte, le vicende di un'aria posta a un finale di bravura per il primo atto ribadiscono l'attrazione straordinaria che il ruolo del (semi)divino cantore ha sempre esercitato sugli interpreti, a partire proprio da Gaetano Guadagni, contralto castrato primo protagonista per Gluck e ragion d'essere della successiva messa in musica da parte di Bertoni.

Una versione che, mercé senza dubbio il divo protagonista, si apparenta da vicino a quella più celebre, testimoniando anche come molti topoi musicali, per esempio nei cori funebri, nelle scene infere e in quelle celesti, fossero parte integrante di un linguaggio comune, di una koiné che ci costringe a rivedere l'eccezionalità singola di quella manciata di titoli – in proporzione alla vastità della produzione – sopravvissuti nel repertorio a emblema degli snodi fondamentali di un'epoca fecondissima. Bertoni guarda a Gluck, lo prende a illustrissimo esempio modellando la sua opera sul precedente, nonché sulle caratteristiche del medesimo – seppur con quale anno in più – protagonista, ma si muove anche nello stesso mondo, un mondo nel quale la Riforma del dramma in musica fa scalpore perché messa nero su bianco da De' Calzabigi nella celebre prefazione al libretto dell'Alceste (1767), ma raccoglie di fatto istanze drammatiche e musicali non ignote ad altri che non a Gluck e al suo poeta.

Abbiamo, allora, il nuovo, abbiamo il prevalere del recitativo, lo sviluppo drammatico del coro, la ricerca della semplicità e dell'immediatezza della melodia, ma anche, talora, una spruzzata più galante e meno severa, una teatralità più colorita e meno canoviana. Insomma: un'opera simillima ma non identica, come dimostra il disegno della scena delle furie, che all'ascolto di questo CD ci pare meno feroce e folgorante che nel capolavoro di Gluck, benché basato sugli stessi modelli ritmici e melodici. Anche le sonorità degli strumenti antichi dell'Ensemble Lorenzo da Ponte contribuiscono in questo caso a una visione ammorbidita del mito e dei suoi contrasti, non certo assenti, in ogni caso, dal lavoro di Bertoni. Qualche rischio si avverte nei corni naturali – sempre sul filo dell'adrenalina – nella fanfara del finale lieto, ma nulla impedisce di apprezzare l'interesse di una partitura che potrebbe ben meritare altra fortuna, anche per una durata che la rende perfino più agile dell'omologa gluckiana.

In questo caso, a sostenere la causa di Bertoni abbiamo, poi, una diva blasonata del virtuosismo barocco più spericolato, qui tutta concentrata, viceversa, sulla mobilità drammatica del recitativo e sulla morbidezza del cantabile espressivo e declamato. Vivica Genaux raccoglie il testimone di Guadagni – più o meno alla stessa età anagrafica, anche se il tempo nel XVIII secolo scorreva più rapido per i cantanti, specie per i castrati – con una dedizione encomiabile, sfruttando con intelligenza a fini espressivi le caratteristiche di un timbro abitualmente ben distribuito nei contrasti del canto di sbalzo e d'agilità.

Il tono, talora all'apperenza più galante, si eleva nel deus ex machina, che per Gluck ha i toni scanzonati di un adolescente Amore con voce di soprano, mentre per Bertoni l'autorità pacata di un baritenorile Imeneo, creato da Giacomo David, mitico docente e padre del celeberrimo Giovanni divo rossiniano, e ripreso qui da un efficace Jan Petryka. Francesca Lombardi Mezzulli, delicata nella voce e stilisticamente rifinita, eredita da Camilla Pasi – moglie di Giuseppe Sarti – la parte di Euridice, gratificata da un'intensissima e agitata “Che fiero tormento”, uno dei migliori esempi dello slancio drammatico di Bertoni, parente non poi così lontano di certe pagine dell'Idomeneo mozartiano.

Roberto Zarpellon, concertatore, dimostra amore autentico per la partitura, per questi recitativi scritti con mano maestra, con un'attenzione al modello gluckiano che non si può ridurre a quella di un devoto copista, ma che mescola le evidenti volontà del divo Guadagni a una sincera ammirazione e adesione estetica. Tanto che, se il cullante lamento in maggiore della più nota “Che farò senza Euridice” ha suscitato le ironie asemantiche di qualche critico, quest'incipit danzante ha un che di nervoso che si sviluppa in un discorso musicale ben articolato, quasi da scena di follia non immemore delle gavotte dell'Orlando haendeliano, e degno della massima attenzione.

L'Accademia di Santo Spirito di Ferrara non sarà, per impasto timbrico e omogeneità, il miglior gruppo vocale barocco del mondo, né l'Ensemble Lorenzo Da Ponte si porrà sul tetto del mondo dei complessi storicamente informati, ma svolgono tutti con evidente passione e attenzione stilistica il loro compito al servizio di questo Orfeo, che senza dubbio merita di essere conosciuto ben oltre la sua magrissima discografia (risulta, salvo smentite, un unico precedente nell'incisione di vent'anni fa diretta da Scimone con i Solisti veneti, l'Ambrosian Opera Chorus, Dolores Ziegler, Cecilia Gasdia e Bruce Ford: complessi blasonati ma filologicamente aggiornabili dopo due decenni).

Le ricche note di copertina di Annalisa Lo Piccolo sono, purtroppo, solo in inglese e tedesco.