Le voci di Cesare

 di Roberta Pedrotti

 

Giulio Cesare, a Baroque Hero

arie di Handel, Giacomelli, Piccinni, Bianchi, Pollarolo

Raffaele Pe, controtenore

Raffaella Lupinacci, mezzosoprano

Luca Giardini, direttore

La Lira di Orfeo

Registrazione effettuata a Lodi, Teatro alle Vigne, nel novembre 2017

CD Glossa GCD 923516, 2018

Leggi anche l'intervista a Raffaele Pe

La storia non è una galleria di ritratti, non è una serie di date e personaggi celebri, ma un complesso di cause, effetti, evoluzioni strutturali e sovrastrutturali. Ci sono, però, personaggi che sembrano forzare questa visione, interpretare il loro tempo, segnarlo, diventare punti di riferimento per i posteri. Uno di questi è, senza dubbio, Giulio Cesare, amato e odiato per la sua statura politica, tirato per la toga a destra e a sinistra, amico del popolo che estende il diritto di cittadinanza e distribuisce terre o autoritario costruttore d'imperi, potenziale liberticida fermato prima che consolidi la tirannide o magnanimo statista tradito al pari di Cristo.

Inevitabile che Cesare affascini il teatro musicale del XVIII secolo, in cui attorno al modello metastasiano l'antichità classica si fa portatrice emblematica dei vizi e delle virtù del potere, fra tirannidi punite o ravvedute e il trionfo di anime nobili e illuminate.

Il personaggio è stato appannaggio di alcuni dei più eminenti castrati; dal Senesino e dal Cusanino nei fra gli anni '20 e '30 a Giuseppe Aprile e Gasparo Pacchiarotti sul declinare del secolo, miti ed esempi di irresistibile richiamo, al pari dell'eroe incarnato, per un interprete moderno. Essere Giulio Cesare significa anche rievocare maestri d'autorevolezza scenica, spericolato virtuosismo, finissima arte retorica.

Raffaele Pe intraprende un cimento entusiasmante che si dipana attraverso diverse intonazioni delle vicende del conquistatore delle Gallie, principalmente concentrate sull'impresa egiziana, lo scontro con Tolomeo e l'amore con Cleopatra. Solo a Venezia, nel 1788, vale a dire in una Repubblica in cui spiravano contrastanti umori non indifferenti alla tempesta rivoluzionaria prossima a scoppiare in Europa, si mette in scena La morte di Cesare. Protagonista è il quarantottenne Pacchiarotti, nel dorato tramonto di un'arte patetica e drammatica sempre sopraffina, circondato ormai da deuteragonisti maschili tutti tenori e bassi (fatto salvo il comprimario Albino). Con le note dello stesso Pe, il saggio di Valentina Anzani, responsabile della ricerca filologica, costituisce un utile filo d'Arianna per comprendere e contestualizzare un programma che segue un ordine estetico d'affetti contrastanti più che il rigore cronologico nell'esposizione. Fra la felpata cautela politica di “Va tacito e nascosto” e lo slancio all'azione di “Al lampo dell'armi” del più celebre dei Cesari operistici, quello di Handel, incontriamo quello inedito del Pollarolo (1713), misurato con altissima eloquenza nella dignità e nella virile tenerezza dell'uomo di stato innamorato. Più incline alla leggiadria sentimentale appare il galante protagonista dell'opera di Geminiano Giacomelli nella versione veneziana (1735), mentre in quella napoletana dell'anno successivo lo sdegno eroico si libera nel virtuosismo più audace suggerito dalle doti del Cusanino. Con un salto al 1770, di Piccinni ascoltiamola reazione fiera e magnanima all'uccisione a tradimento di Pompeo e il classicissimo topos dell'aria di sonno, ormai espressi con un linguaggio anche strumentale profondamente mutato, con un dialogo fra voce e strumenti che non è più il duetto concertato con il corno in Handel. Possiamo così ben apprezzare la versatilità dell'ensemble La lira di Orfeo guidato da Luca Giardini, sempre attento a caratterizzare a dovere la scrittura di ogni brano fino a quel Francesco Bianchi che conferisce all'eroe morituro un'umanità di sentimenti affatto nuova. Dagli affetti del Pollarolo all'articolazione delle arie di Bianchi si consuma il passaggio dall'Ancien Régime all'età delle rivoluzioni, dal barocco a un classicismo sempre più ombreggiato di dramma, dal codificarsi di una forma al suo trasformarsi dalla stilizzazione progressiva all'affermazione della passione.

Di Handel il duetto fra Sesto e Cornelia offre l'unica divagazione dalla voce stessa del dedicatario della raccolta per ascoltare la vedova e il figlio del suo nemico protetti dopo il tradimento di Tolomeo. Affiancato da una toccante e aristocratica Raffaella Lupinacci, Pe affronta una parte creata per un soprano femminile en travestì, Margherita Durastanti, e realizza un bel contrasto complementare di timbri con il mezzosoprano.

Pe, infine, rende molto bene, con gran cura dell'accento, il mutare graduale del bagaglio retorico dei suoi personaggi, senza eccedere in languori, vezzi, impeti. Non si tratta mai di enfatizzare, né tantomeno di presupporre una qualche evoluzione, bensì di riconoscere i tratti peculiari di un linguaggio, di un contesto estetico e ideale. Sfrutta in tal senso con intelligenza una voce che è, semplicemente, la sua e si adatta alle tessiture che via via la sollecitano; un timbro particolare, personale, stilizzato ma non levigato, d'un colore chiaro che la parola colorisce, come delineando ombre nel marmo antico. Le impennate in acuto acquistano, invece, riflessi metallici messi a profitto per una lettura dolorosamente stilizzata e tagliente di “Cara sposa” da Ariodante. Un bonus "fuori tema" per dirci che il Cesare barocco, uomo ed eroe, è fratello di tanti altri uomini ed eroi del teatro musicale? O forse semplicemente per salutarci in bellezza con un'altra aria splendida? In ogni caso, un congedo graditissimo.