L'ombra del Seicento

  di Roberta Pedrotti

G. F. Handel

Serse

Fagioli, Genaux, Kalna, Aspromonte, Galou, Mastroni, Pizzuti

direzione e cembalo al continuo Maxim Emelyanychev

Il Pomo d'Oro

Cantica Symphonia, maestro del coro Giuseppe Maletto

3CD Deutsche Grammophon 00289 483 5784 GH3, 2018

Registrato a Lonigo nel novembre 2018

“Ombra mai fu”, su un'ammaliante quartina di quinari tronchi e sdruccioli, è forse la melodia più celebre di Handel, fra le più fortunate di tutta la storia della musica occidentale. Eppure all'opera da cui proviene, e che con essa dopo un breve recitativo si apre, non arrise la sorte: durò sulle scene per appena cinque recite ed entrò subito in un lungo sonno durato un paio di secoli. D'altra parte, il libretto doveva apparire terribilmente antiquato: scritto a Venezia da Nicolò Minato nel 1655 per Francesco Cavalli, fu rivisitato a Roma da Silvio Stampiglia per Giovanni Bononcini nel 1694 e, per quanto il testo sia stato rinfrescato per il pubblico londinese del 1738, l'impianto originario restava legato a un altro mondo, a ottant'anni prima, a un pubblico madrelingua italiano. Aspetto, questo, da non trascurare, ché maggiore è la familiarità con l'idioma cantato, maggiore è la possibilità di profondere sottigliezze concettuali, etiche e ideali nelle faccende serie, di speziare saporite questioni private, amorose e burlesche. Figuriamoci quando la vicenda è un'intricata commedia sentimentale che coinvolge personaggi quasi esclusivamente d'altissimo rango! Due fratelli amano la stessa donna, la quale a sua volta ha una sorella che le contende l'amore del pretendente favorito. Lo spasimante disprezzato è un Re, anzi, il Gran Re dell'impero persiano, e avrebbe un'agguerrita fidanzata che giunge a corte vestita da uomo per vigilare sul fedifrago. Se aggiungiamo la passione bizzarra del sovrano per l'ombra del suo platano prediletto e il suo stravagante piano per conquistare la Grecia con un ponte sul mare, un fedele vassallo padre delle due sorelle e un buffo servitore, abbiamo tutti gli elementi per muoverci sul crinale delicatissimo che separa dramma e commedia di fronte a un pubblico che si aspettava più l'effusione dell'affetto nelle arie che il salace gioco teatrale sulla parola e il recitativo.

Handel corre il rischio con la grazia di un equilibrista, scende dal coturno ma non rinuncia a un tono aristocratico che si piega al sentimento e all'ironia, sincero e ambiguo. Si basa sulla partitura di Bononcini, che conosce bene e prende spesso a modello, muove il recitativo, che Londra vuole più stringato dell'Italia, con ariette insolitamente brevi, anche giocose, strofe e ritornelli che rimbalzano a più riprese, come nella canzonetta di Elviro nei panni del giardiniere o nelle due arie gemelle giustapposte di Serse e Arsamene “Io le dirò che l'amo... - Tu le dirai che l'ami”. Non mancano pezzi di respiro più ampio e serio, ma non con la vertigine che ci si aspetta dal dramma in musica nel cuore del XVIII secolo. Tuttavia, proprio l'essere antiquato che negò a suo tempo fortuna a Serse potrebbe farla ora, erede estremo e ingentilito assai dello scatenato melodramma veneziano, dalla natura ambigua e dalla teatralità garbata ma vivace. Un'opera del secondo Seicento, ma rispolverata da uno dei geni del primo Settecento.

Più che all'astrazione, la locandina di questo CD sembra puntare all'identificazione precisa fra voci e personaggi. I ruoli vocali son rispettati, con soprani e contralti per eroi ed eroine, amanti e amati, bassi per figure altere e marziali e per servitori più o meno buffi; i due fratelli Serse-Franco Fagioli e Arsamene-Vivica Genaux sembrano, però, fratelli anche nel timbro – squisitamente androgino – e nel modo di cantare, quasi spregiudicato nello sbalzare virtuosismi e affetti. L'idea che, fuori dal palcoscenico, si tratti di un uomo e una donna non balena mai all'ascolto, sedotto piuttosto dalle similitudini innate da cui spiccano indoli differenti, il capriccio del primogenito coronato, la nobile passione del cadetto. Nella disinvoltura con cui si dispiegano trilli e si abbraccia la più vasta estensione (Fagioli non teme affondi virili alternati a sovracuti lucenti, ma quanto a spericolatezza Genaux non è da meno), patisce solo un poco talora la pulizia della pronuncia, benché la dizione sia buona, così come l'intenzione espressiva. Se non cedono quanto a mordente espressivo, la naturalezza nell'articolazione del testo resta un punto di forza delle voci gravi e dei tre personaggi femminili, fra cui spicca Francesca Aspromonte con la sua Atalanta capace di stemperare la giusta dose di malizia in una linea vocale perfettamente tornita, in una recitazione musicale scaltrita quanto – apparentemente – spontanea. Inga Kalna, la contesa Romilda non è da meno e le si contrappone in un canto cesellato con delicatezza e candore ma non ingenuità, anzi decisione; in maniera quasi speculare, Delphine Galou trae giovamento dal suo timbro asciutto perché la gelosia di Amastre non trascenda e rimanga ben celata nel contegno del travestimento maschile. Ottime, poi, le prove delle due voci gravi maschili: Andrea Mastroni coglie perfettamente la misura di Ariodate, principe vassallo di Serse e padre di Romilda e Atalanta, conferendo al suo strumento agile e scuro la nobiltà del generale e l'autorevolezza del genitore senza prendersi troppo sul serio e sbilanciare i toni della commedia (basti ascoltare la bonomia con cui intona "Del Ciel d'amore sorte sì bella"); Biagio Pizzuti è arguto e francamente divertente là dove la parte di Elviro lo richieda, ma all'occorrenza sa sfoderare colorature perfettamente assestate e mettere in luce una vocalità di tutto rispetto.

Concerta al cembalo Maxim Emelyanychev, che dell'ensemble Il Pomo d'Oro è direttore musicale, garantendo perfetta unità d'intenti fra il gruppo strumentale, il coro Cantica Symphonica e il cast vocale: tutti comprovati esperti e specialisti che rievocano il profumo dell'Arcadia romana in cui ancora si annida lo spirito della commedia veneziana, decantato e levigato infine dal filtro di Handel. Il rapporto fra recitativo e arie è reso con la massima fluidità, mettendo in luce l'agile trasparenza di un fraseggio strumentale che non rinuncia, comunque, a un adeguato gioco di colori. È nelle sfumature che trova spazio l'ambiguità del testo, la leggerezza dell'intrigo amoroso così come l'autenticità del pathos sentimentale, senza squilibri o brusche cesure. 

Da segnalare le note di copertina, che comprendono un bel saggio del musicologo David Vickers e una riflessione sulla drammaturgia dell'opera firmata dalla scrittrice Donna Leon, appassionata melomane e decisamente affascinata dall'ambiguità di Serse, che sfugge a rigide definizioni di genere.