Frammenti di memoria

 di Roberta Pedrotti

M. Weinberg (1919-1996)

Sinfonia n. 2 op. 30 per orchestra d'archi (1930)

Sinfonia n. 21 Kaddish op. 152 (1991)

Mirga Gražinytė-Tyla, direttrice e soprano

Gidon Kremer, violino solo

Oliver Janes, clarinetto

Georgijs Osokins, pianoforte

Iurii Gavryliuk, contrabbasso

Kremerata Baltica

City of Birmingham Symphony Orchestra

2 CD Deutsche Grammophon, 2019

Mieczysław Weinberg, noto anche come Mojsze o Moisej Samuilovič Vajnberg (in cirillico Моисей Самуилович Вайнберг) è stato uno dei grandi testimoni del secolo. Nato nel Ghetto di Varsavia nel 1919, il nazismo lo separò dalla famiglia – di cui non seppe più nulla – e lo costrinse a riparare nell'ex unione sovietica, dove Stalin non gli rese la vita facile. Condivise con l'amico Šostakovič , che lo difese anche in virtù del maggior prestigio, un rapporto difficile con il regime, al punto di essere arrestato, nel 1953, con accuse di “nazionalismo borghese ebraico”. La morte, nello stesso anno, del dittatore fu per Weinberg un sospiro di sollievo, anche artistico, perché alle accuse di formalismo di cui era stato oggetto poteva subentrare una maggior libertà creativa. I fantasmi del passato, però, non cessarono di tormentarlo, come il ricordo dei parenti – morti, si seppe solo molto più tardi, nel lager nazista di Trawniki, dopo che la famiglia si era trasferita a Varsavia agli inizi del secolo proprio per sfuggire ai Pogrom. L'opera più celebre di Weinberg è La passeggera (Пассажирка, Passazhirka)e tratta dell'incontro su una nave fra una donna tedesca, che nasconde anche al marito diplomatico il suo passato di SS ad Aushwitz, e una polacca che era stata internata nello stesso campo. L'ultimo lavoro, testamento spirituale concepito nell'arco di un quarto di secolo è la Sinfonia n. 21, Kaddish (o Pianto, in uno dei manoscritti), “in memoria di coloro che sono stati assassinati nel Ghetto di Varsavia”, completata nel 1991, a cinque anni dalla morte.

È musica del dolore, questa, in cui il rapporto di Weinberg con il passato, sia nel recupero di forme, sia nella citazione e rielaborazione di materiali preesistenti, rivela un carattere ben preciso: una sorta di ricostruzione pietosa di una memoria lacerata, l'eco di una pace perduta. Lo si intende subito, quando il primo movimento esordisce citando Chopin, che resta presenza latente quanto lampante in questa e in altre opere di Weinberg. Chopin è la Varsavia prima dell'invasione, è la città libera, è l'arte, è il nido sicuro, l'infanzia trascorsa studiando pianoforte in Polonia. Chopin è la patria e la lingua madre, che man mano si sfaldano nel dramma, nelle ferite, cui soccorrono altri ricordi. Così, quando nel quarto movimento, Presto, irrompe il klezhmer, non è il moto vitale, irridente fra sensualità e morte, di Mahler, ma è uno scatto violento, ribelle, un ricordo che si dibatte. È la rivolta del Ghetto soffocata nel sangue, il ricordo gioioso che la violenza immotivata rende amaro e sanguinante. Il movimento, infatti, si chiude in una stasi irreale, nel silenzio della morte da cui sorge timido un pizzicato, come gocce di una pioggia purificatrice, ricostruzione dal suono di un mondo devastato. Così, il Lento conclusivo dei sei tempi in cui si articola la sinfonia è permeato dal canto. Non dalla parola, però: il Kaddish di Weinberg non è come quello di Bernstein, che addirittura affida a una voce recitante l'apostrofe a Dio della preghiera ebraica. Qui, di fronte dall'orrore incomprensibile, a ciò che Primo Levi disse dovesse esser conosciuto e non potesse esser capito, manca perfino la forza del discorso. La voce è strumento, vocalizzo, attonita lallazione che ricerca il suo spazio, eredita una pura funzione sonora solistica in un'architettura sinfonica che sembra pensata come un dialogo cameristico. Il soprano è come il violino, il clarinetto, il piano e il contrabbasso che si distinguono e paiono quasi sorreggere il tessuto orchestrale con il loro fraseggio solitario, espressione di diverse sfumature, di diversi frammenti di un'unica memoria, di un unico doloroso pensiero. Ancor più, questa dialettica, è rafforzata dall'identificazione fra la solista e la direttrice, rivelando le ottime doti vocali, per precisione e perfetto timbro diafano, della bravissima Mirga Gražinytė-Tyla , interprete sopraffina sul podio per questo impegnativo programma di cui non una sfumatura va persa. Anzi, nella bacchetta di Gražinytė-Tyla ritroviamo non solo l'eccellente controllo di pesi e colori, ma anche l'ambiguità espressiva di un gioco di elaborazioni, reminiscenze e citazioni che in un momento all'altro o anche nello stesso istante, senza discontinuità, può passare dalla tenerezza all'orrore, dal gioco alla sofferenza, dalla ribellione alla stasi.

Tutti elementi che nella ventunesima sinfonia sono decantati negli anni, ma che l'accostamento con la seconda per orchestra d'archi (1946) aiuta a comprendere come da sempre insiti della poetica di Weinberg, presenti in nuce dalle traumatiche esperienze giovanili e sviluppati nel tempo in un'infaticabile ricerca artistica. Gražinytė-Tyla lo fa intendere con profonda chiarezza, lasciando trasparire l'intima estrazione cameristica delle partiture nel senso di condivisione e reciprocità che emerge anche dal rapporto con Gidon Kremer, il sommo artista che conosciamo, sensibilissimo e mai soverchiante violino solo, la sua Kremerata Baltica, cui si uniscono per la sinfonia Kaddish la City of Birmingham Symphony Orchestra, di cui Gražinytė-Tyla  è direttrice musicale, e gli altri solisti Oliver Janes, clarinetto, Georgijs Osokins, piano, Iurii Gvryliuk, contrabbasso.

Per non dimenticare, un disco dedicato all'arte che è storia, vita, memoria, elaborazione, riflessione.