Più tedesco di Beethoven?

di Roberta Pedrotti

G. Rossini

Zelmira

Dalla Benetta, Stewart, Süngü, Comparato

direttore Gianluigi Gelmetti

Virtuosi Brunensis

Górecki Chamber Choir Kraków

Registrato a Wildbad nell'estate 2018, Festival Rossini in Wildbad

3 CD Naxos 8.660468-70, 2020

Secondo Stendhal, che non osa comunque giudicarla avendola ascoltata solo al pianoforte, Zelmira indica che Rossini avrebbe intrapreso un percorso "che lo renderà forse più tedesco di Beethoven", sebbene il grado di "germanizzazione" sia ancora inferiore a quello di Semiramide (il che la dice lunga sulla percezione del "Rossiniste de 1815" rispetto alla nostra). Per chi idealizzava Raffaello e Cimarosa, Tancredi e La pietra del paragone in un unico mito dell'arte italiana, questo sospetto transalpino era fondata ragione di diffidenza, semplificata nella contrapposizione pretestuosa, ma tanto in voga, fra canto e orchestra, melodia e armonia. 

Benché, poi, molti di questi schemi e pregiudizi siano caduti (o siano stati sostituiti da versioni aggiornate), Zelmira ha effettivamente faticato a a trovare un posto nel cuore dei melomani e perfino degli studiosi, surclassata dalla potenza immediata delle rivelazioni di Ermione o Maometto Secondo. Già solo il fatto che sia l'ultima opera scritta da Rossini per Napoli e scritta già in prospettiva della grande tournée a Vienna, pensando a Metternich e al primo impatto diretto con il pubblico non italiano, dovrebbe fornire qualche indizio. Si tratta di un lavoro per molti versi audace, ma non spericolato, anzi, maturo, in cui il compositore sfodera tutta la sua padronanza degli strumenti elaborati e affinati in una dozzina d'anni di carriera, tanto frenetici da valere almeno il doppio. Il libretto, è vero, non è un granché, e la colpa non è nemmeno del vituperato Tottola, che si trova a rielaborare un dramma francese altrimenti caduto nel dimenticatoio dopo aver lavorato - e bene - su Scott o Racine. Proprio la debolezza di questi elementi di moda, misto di classicismo e più o meno recenti mode sepolcrali, con la loro catena di congiure, cospirazioni, attentati, usurpatori che usurpano il trono usurpato da altri usurpatori (ma tutti celebrati e incoronati come "prence amato"), improvviso deus ex machina risolutore, mette in luce l'abilità di Rossini drammaturgo musicale, che si destreggia nell'intreccio claudicante mettendo in evidenza la forza di alcuni elementi chiave: l'atmosfera notturna, sotterranea, claustrofobica, la tensione dell'inganno, del silenzio, del fraintendimento. Zelmira è un'opera oscura non solo perché si apre, con un incipit folgorante senza preludi o sinfonie, con un omicidio nel cuore della notte e si svolge ampiamente fra prigioni e sotterranei segreti, ma anche perché si sviluppa intorno a un'impossibilità di comunicare: la verità deve essere taciuta sia dall'eroina, sia dagli antagonisti, fioriscono incomprensioni, fraintendimenti, insidie e calunnie. Zelmira è un'opera dinamica, questo senso d'incertezza e tenebra è acuito dalla predominanza di ampi numeri d'insieme, di arie con pertichini o comunque drammaticamente agitate (ascoltate che meraviglia l'ingresso del coro nella seconda aria di Antenore, l'effetto del passaggio repentino al modo minore). Giusto al basso Polidoro è riservata un'introversa cavatina solitaria, mentre l'esuberante sortita di Ilo, luminoso sfoggio di amorosi trasporti tenorili, è l'efficacissimo, eclatante contrasto fra il principe di ritorno dalla guerra e ignaro della situazione creatasi in sua assenza, insomma di un personaggio ancora del tutto alieno all'intreccio. 

Questa incisione realizzata al Festival di Wildbad nel 2018 riporta la versione parigina (1826) dell'opera accogliendo anche l'aria per Emma inserita per Vienna. Si tratta, dunque, della stessa adottata a Pesaro nel 2009, che, oltre a gratificare la seconda donna, offre a Zelmira un'ampia scena di catene, in parte desunta da Ermione, prima dell'epilogo, nel quale la stretta del rondò "Deh circondatemi miei cari oggetti" si ripartisce a tre voci nella famiglia riunita: l'eroina con il padre Polidoro (basso) e lo sposo Ilo (tenore). Il pezzo forte, ancor più forte e pregnante dell'originario rondò solistico, riservato alla primadonna Giuditta Pasta torna dunque a confluire in una dimensione collettiva, che rende anche tributo alla presenza di Giovan Battista Rubini come Ilo, nelle condizioni di saettare da par suo nelle ultime battute dell'opera. Dunque, le varianti per Vienna e Parigi non vanno ad alterare troppo gli equilibri e il valore dell'opera, ampliandone semmai le proporzioni rispetto alla sintesi incalzante che caratterizzava il secondo atto a Napoli.

Certo, anche solo ricordando che a Colbran, David e Nozzari di Napoli e Vienna a Parigi succedettero Pasta, Rubini e Bordogni (che non sarà stato un fenomeno come il collega in forza al San Carlo, ma fu comunque il primo Libeskof nel Viaggio a Reims) è facile capire che Zelmira esiga quelle stelle di prima grandezza che non sempre è possibile avere. Non era possibile averle sempre nemmeno al tempo di Rossini. Allora come oggi, non è uno scandalo che si venga a patti con una scrittura particolarmente impegnativa; l'importante, allora come oggi, è farlo con gusto, onestà e consapevolezza, consci che il gusto nel tempo cambia e anche la consapevolezza dipende dal rapporto che ogni epoca ha con gli studi filologici e la prassi esecutiva. Si tratta, in quest'ottica, di conoscere i punti di forza su cui puntare e tenere sotto controllo i propri limiti. Ne è un ottimo esempio Silvia Dalla Benetta, che dimostra confidenza con il linguaggio del Rossini napoletano, comprensione del senso drammatico della scrittura, presta grande attenzione all'accento, a un fraseggio nobile e ben articolato, sì da far passare in secondo piano qualche opacità vocale, qualche passaggio sgranato non alla perfezione, seppur sempre con credibilità. Nondimeno, Mert Süngü affronta con cautela alcune delle pagine più scabrose di Ilo, ma la voce è limpida e luminosa, il registro acuto ben controllato, la dizione chiara e consapevole. Un po' più goffa, ma sempre comprensibile, la pronuncia di Joshua Stewart, anche lui talore prudente come Antenore, ma anche capace di definire con convinzione un personaggio efficace, musicalmente pronto, attento e, perché no, trattandosi della versione parigina affidata a un tenore più acuto che baritonale, capace di contrapporsi al collega di corda anche in maniera coerente sul piano storico.

Molto bene, per stile e padronanza belcantistica, Marina Comparato nei panni di Emma, non sempre perfettamente a fuoco nell'emissione ma ben fraseggiato il Polidoro di Federico Sacchi, ficcante anche con il suo peculiare rotacismo (ecco che il difetto di pronuncia diventa funzionale all'interprete) il Leucippo di Luca dall'Amico. Completano un cast che si distingue, se non per meraviglie indimenticabili, per equilibrio e cura l'Eacide di Xiang Xu e il Gran Sacerdote di Emmanuel Franco. I Virtuosi Brunensis sono ormai un'affidabile certezza per le produzioni del festival di Wildbad, insieme con il coro da camera Górecki di Cracovia.

Al netto dell'esperienza solida, della conoscenza dello stile e del repertorio sfoderati anche in questa occasione da Gianluigi Gelmetti, si nota talora come la discrezione nel mettere a proprio agio le voci non si tramuti in in un sostegno più stimolante, in un maggiore mordente, come nel terzettino finale, dove, non gareggiando i tre solisti nelle pirotecnie vocali che si suppone abbiano esibito i primi interpreti, il fuoco alimentato in quasi tre ore di dramma trova polveri un tantino bagnate. Ai nembi così ben addensati, insomma, avrebbe dovuto contrapporsi infine un più luminoso cielo di pace. Nulla, comunque, che penalizzi troppo un'incisione realizzata con ogni cura, testimone di come l'idioma rossiniano nel XXI secolo possa essere interpretato e condiviso anche senza stelle, anche venendo a patti con qualche difficoltà, ma con gusto, onestà, consapevolezza.

Infine, non bisogna dimenticare le note sempre piacevolissime e ricche di dettagli utili di Reto Müller.