L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La fille du régiment, pura gioia a Vienna

di Francesco Lora

 

Lo spettacolo con regìa di Laurent Pelly, capolavoro dell’ultimo decennio, è a una nuova ripresa nella Staatsoper della capitale austriaca. La compagnia di canto spazia dalla spigliata Íride Martínez all’eccellenza di Juan Diego Flórez e Carlos Alvarez, fino alla sorpresa di Aura Twarowska e al cammeo di Kiri Te Kanawa. Di riferimento la direzione di Bruno Campanella

VIENNA, 29 ottobre 2013 – Le rocciosità della montagna fatte con le pieghe di un’enorme carta topografica e cumuli di biancheria militare da lavare, più una gestualità spiritosissima, costumi che sono divise da personaggio, luci che sembrano trasformare la scena in bande dessinée. È La fille du régiment di Donizetti nello spettacolo firmato da Laurent Pelly (regìa e costumi), Chantal Thomas (scene), Joël Adam (luci), Laura Scozzi (coreografia) e Agathe Mélinand (revisione dei dialoghi parlati). Uno spettacolo la cui incantevole leggerezza umoristica, francese fin nel midollo, è stata premiata con la sistematica ripresa nei più importanti teatri europei e americani, da Barcellona, Londra, Parigi e Vienna a New York e San Francisco. Doveva andare in scena anche alla Scala, nel febbraio-marzo 2007, ma con lungimiranza italiana si pensò poi di riesumare scene e costumi di Franco Zeffirelli (1959), polverosi e scoloriti a dispetto del loro antico valore e dell’impegno registico di Filippo Crivelli. Bando ai vecchi rimpianti, quattro nuove recite dello spettacolo di Pelly sono andate in scena alla Staatsoper di Vienna dal 26 ottobre al 4 novembre, con una compagnia di canto ormai inscindibilmente associata a quell’allestimento, dove l’impegno vocale deve congegnarsi a una recitazione rifinitissima. Solo un doppio colpo di scena: prima il forfait di Anett Fritsch nella parte eponima di Marie, sostituita da Daniela Fally; poi il forfait di quest’ultima, a sua volta sostituita da Íride Martínez. Eppure non si crederebbe che la Martínez sia piovuta lì all’ultimo momento: già Marie a Bilbao e Tel Aviv sotto la ben più moderata regìa di Emilio Sagi, ella si ambienta subito nel nuovo spettacolo con ammirevole spigliatezza, saltellando da un capo all’altro della carta topografica e sbracciandosi nell’esasperata ed esilarante gestualità da maschiaccio. L’ammirazione aumenta se tanta esuberanza scenica non esclude la raffinatezza del canto: la voce non è importante per volume, ma sale con agio al registro sopracuto e conserva sempre timbro gradevole e modulazione attenta. Intorno alla Martínez, un girotondo di mostri sacri. C’è innanzitutto Juan Diego Flórez come insostituibile Tonio: è facile riferire del solito bis, concesso a furor di popolo, della girandola dei nove Do di petto nella celebre cabaletta dell’atto I; meno facile è dire quanto il personaggio sia maturato lungo oltre un decennio di frequentazione: il fraseggio è oggi un’inarrivabile simbiosi di immediata freschezza e forbita eleganza, mentre l’acrobazia del movimento scenico e la simpatia dell’interprete fanno a gara con l’espressività del canto. La lunga esperienza permette di concedersi anche al gioco, con una gamba dentro la musica e l’altra dentro la complicità col pubblico: come quando, al momento di sciabolare il diciottesimo e ultimo Do sopracuto, Flórez prepara la nota e poi ammutolisce un istante, ingannando chi già pensava d’avere in orecchio la fatidica nota. Accanto al primissimo tenore dei nostri giorni fa piacere ritrovare Carlos Alvarez: gli ultimi anni di incertezze vocali lo hanno spesso allontanato da Verdi, ma non gli impediscono di dar gesto e voce a un Sulpice di lusso, il quale ha tutta la vivacità del buffo all’italiana, tutta la sornioneria dell’opéra-comique, un timbro baritonale e un legato degni della più alta causa, e così via.

Una bella sorpresa è Aura Twarowska, mezzosoprano-utilité della Staatsoper, impegnata come Marchesa di Berkenfield: qui ella ha modo di esibire non solo il sontuoso corpo vocale, ma di affermarsi come animale da palcoscenico a tutto tondo, capace di accompagnare personalmente al pianoforte la scena della lezione di canto, e di recitare con scoppiettante comicità i lunghi dialoghi in francese. Non manca il cammeo del quale i melomani attendono il bollettino vociologico: per la piccola ma altisonante parte della Duchessa di Crakentorp, la Staatsoper ha sfoderato un ritorno alle scene della grande Kiri Te Kanawa, appassita senza rimedio nel registro acuto (oggi forzato e stridente) ma ancora stupefacente per un timbro d’inconfondibile radiosità e fioritissimo aroma, nonché per una proiezione del suono che, come nulla fosse, le permette ora come allora, e come a pochi altri tocca in sorte, di riempire l’ampia sala del massimo teatro viennese. Se da una parte sta la regìa teatrale di Pelly, dall’altra sta quella musicale di Bruno Campanella, la quale ne condivide l’orizzonte e il pregio. Orchestra e Coro della Staatsoper di Vienna, si sa, vanno in recita con prove scarse o nulle: seguono il gesto del direttore per ciò che attiene a tempi e articolazione, ma non sono facilmente propensi a seguirlo nelle sottigliezze di una lettura personale. Campanella sa fare eccezione: i complessi viennesi ricevono da lui una peculiare arguzia di fraseggio, la quale possiede nel contempo l’amabilità all’italiana e l’ironia alla francese; ciò che non riesce a Evelino Pidò nell’Anna Bolena degli stessi giorni – anch’essa recensita in queste pagine – riesce invece in questa Fille du régiment, dove un’orchestra con peso da artiglieria e alle prese con la robusta strumentazione di Donizetti riesce tuttavia a farsi leggera, spumeggiante, volatile. Una direzione di riferimento per uno spettacolo che è pura gioia della visione e dell’ascolto.


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