À nous l’ivresse et la folie!

 di Emanuele Dominioni

Il capolavoro operistico di Offenbach viene presentato a Piacenza nell'edizione critica Kaye/Keck e in una lettura teatrale e musicale complessivamente di rilievo.

PIACENZA, 7 gennaio 2015 (prova generale) - Ispirati a tre diversi racconti di E.T.A. Hoffmann – L’uomo della sabbia, La storia del riflesso perduto e Il violino di Cremona - Les contes d’Hoffmann si pongono cronologicamente parlando, come l’ultimo capolavoro di Jacques Offenbach. Assai nota è la lunga e articolata vicenda compositiva che interessò l’opera fin dalla sua creazione, e che divenne ancor più complessa allorquando sopraggiunse la morte dell’autore, antecedentemente della prima rappresentazione avvenuta all’Opéra Comique il 10 febbraio 1881. Da allora le otto diverse versioni che si sono alternate dal 1881 al 2009 dovettero far fronte alle numerose falle presenti nelle partiture rimaste, sia per quanto concerne propriamente i numeri musicali, sia sul piano drammaturgico e dell’orchestrazione stessa. In questo scenario il concetto di “opera aperta” è più che mai da chiamarsi in causa nel tentativo di delineare un’organica lettura di Les Contes d’Hoffmann. Ciò che però innegabilmente pervade il lavoro del compositore tedesco (definito più tardi “mago della parodia e parodista dei miti”) è il carattere prismatico e immaginario della drammaturgia offenbachiana, i cui diversi quadri narrativi si snodano - o, meglio, si accostano l’un l’altro - dando vita a una tavolozza inesauribile di situazioni, colori e personaggi a dir poco visionari. Su tutti, il carattere demoniaco che udiamo costantemente nella musica di Offenbach (retaggio del romanticismo tedesco fin da Weber), non si incarna nel mondo dell’ignoto o unicamente in soggetti di matrice infernale (come avviene invece ad esempio nel Faust di Gounod ). Esso è presente piuttosto, in modo diremmo quasi onomatopeico e macabro, nel ticchettio della bambola, nell’atmosfera cupa e sinistra che pervade la vicenda esistenziale di Antonia, nel selvaggio coro degli studenti e - neanche a dirlo -, in tutti gli interventi del basso-baritono: Lindorf, Coppelius, Dapertutto e Miracle, ossia nelle figure negative per eccellenza del dramma.

L’edizione in quattro atti presentata al Teatro Municipale di Piacenza è quella Kaye/Keck, versione che, a detta del regista Nicola Berloffa, più si avvicina per carattere drammaturgico e fedeltà musicale allo spirito della perduta/incompiuta originale. Scenograficamente parlando siamo proiettati in una Norimberga fin de siècle, all’interno di una grande stanza in stile biedermeier. Il gusto e lo stile tardo ottocenteschi si riflettono nell’arredo borghese composto da un grande camino, pesanti tendaggi e boiserie scure che rimandano ad atmosfere da boudoir e caffè parigini. In tale cornice, creata da Fabio Cherstich, tutti i protagonisti mostrano di muoversi con sapiente arte teatrale e disinvoltura scenica. La cura verso la recitazione ha mostrato i suoi frutti soprattutto nell’atto di Olympia, grazie anche all’ottima performance del coro, assoluto protagonista sulla scena nei numerosi interventi a lui affidati.

Berloffa ci regala una lettura dell’opera dai connotati espressionistici e dalla dinamicità teatrale di piglio quasi cinematografico. Pur nella difficile impresa di muoversi in una drammaturgia dai tratti narrativi non sempre fluidi e contigui, l’intento di dare un’organicità alla vicenda è stato reso possibile anche dall’incalzante lettura musicale di Christopher Franklin. Il direttore americano mantiene tempi spediti lungo tutto l’arco dello spettacolo, riuscendo nell’intento di creare una tensione costante fino alla fine. Ne consegue però che, almeno alla prova generale, non sempre la concertazione è parsa precisa, e alcuni sfasamenti ritmici si sono registrati soprattutto durante la Barcarola dell’atto di Giulietta e nei molti interventi dei comprimari. Di grande respiro e vitalità sonora anche le molte scene d’insieme del prologo, dell’atto di Olympia e del finale ultimo, rese ostiche dalla dinamicità scenica di una siffatta impostazione registica, ma affrontate con grande maestria da tutto il cast, masse comprese.

Nel ruolo del titolo troviamo il tenore lirico Giorgio Berrugi. Vocalmente ineccepibile nell’affrontare una scrittura davvero articolata e spinta, la sua morbida vocalità e l’ottima emissione gli hanno consentito di portare a termine la recita con una freschezza del proprio strumento davvero mirabile. Lo troviamo qui al debutto nella difficile parte del poeta, ed è del tutto comprensibile che il fraseggio e l’aderenza allo spirito del personaggio (parsi invero già pregevoli) siano ancora in via di definizione.

Di qualità anche la prova offerta da Simone Alberghini come Lindorf, Coppelius, Miracle e Dappertutto. Il basso-baritono bolognese offre un interpretazione assai approfondita dei ruoli demoniaci a lui affidati attraverso un fraseggio assai mobile e una vocalità ben a fuoco. La presenza scenica rodata da anni di carriera internazionale e l’intelligenza teatrale hanno contribuito innegabilmente al successo della sua prova.

Olympia era il soprano Elisa Cenni la cui vocalità pirotecnica e la presenza scenica diafana e robotica le hanno consentito di calzare a pennello i panni della bambola. Non sempre però l’emissione è parsa precisa e curata, e talune volte l’interpretazione sopra le righe e marionettistica impressa dalla regia, è parsa travalicante nei confronti della qualità della linea di canto.

Nei ruoli di Giulietta, Antonia e Stella il soprano Maria Katzarava dà sfoggio di una voce dalla corposità lirica notevole, di morbida fattura, e dal colore invero assai accattivante. Se la sua Antonia è disegnata magistralmente a tutto tondo, grazie a un’interpretazione accorata e di grande impatto, lo stesso non può dirsi dell’approccio vocale al personaggio di Giulietta. Purtroppo qui il soprano, nel tentativo di dare una lettura vocale più leggiadra e fresca al personaggio, inciampa tecnicamente in molti suoni spoggiati e una linea di canto spesso scomposta.

Incolore la prova del mezzosoprano francese Violette Polchi. Pur mostrando un fraseggio accurato e una presenza scenica disinvolta che ben si adattano al personaggio di Niklausse, il peso vocale dalla consistenza assai risibile non le hanno giovato nel tentativo di imprimere sostanza teatrale alla sua performance. Vista la giovane eta' ci permettiamo di consigliare un repertorio lirico meno spinto (Rossini e Mozart le starebbero bene al momento).

Florian Cafiero riesce nell’intento di disegnare i diversi ruoli a lui affidati in maniera assai caratterizzante. La morbida vocalità tenorile sfoggiata mostra un certo sforzo nella zona del passaggio emerso soprattutto durante l’aria di Frantz, a cui però il tenore francese ha saputo sopperire con un’interpretazione brillante e ben a fuoco. Da segnalare infine anche la buona prova di Oreste Cosimo come Nathael e Cochenille, del mezzosoprano Aline Martin(La Voix de la Tombe) e soprattutto del basso Olivier Dejan (Maître Luther/Crespel).

Come già anticipato il coro del Teatro Municipale diretto da Corrado Casati si conferma compagine di grande affiatamento e qualità sonora, e in questa sede risponde in modo ottimo anche scenicamente, mostrando vitalità e partecipazione teatrale non comuni.