Elogio del sarto

 di Giuseppe Guggino


Catania sceglie uno dei titoli di belcanto tra i più impegnativi come è Anna Bolena per l’inaugurazione della stagione del rilancio, radunando un cast abbastanza eterogeneo nel quale si mettono in luce i due validi catanesi Dario Russo e José Maria Lo Monaco. A garantire quasi miracolosamente l’omogeneità e la riuscita complessiva della serata provvede la mano esperta e mai troppo lodata del maestro Antonio Pirolli. Purtroppo i catanesi disertano, e fanno male, se non altro per quanto di buono riserva la serata.

Catania, 16 gennaio 2015 - Nella stessa Milano nella quale Donizetti componeva Anna Bolena per il Carcano, la gestazione dei futuri Promessi Sposi era in corso già da un decennio, e in quella straordinaria galleria di personaggi umili tratteggiati dal Manzoni con pietas da cattolico giansenista, come avrebbe poi annotato Gramsci in quella miniera che sono i quaderni del carcere, ve n’è uno assolutamente secondario al quale - chissà perché – il padre del risorgimento italiano affibbia il mestiere di “sarto”, umile sì, ma di insospettabile sapienza ed erudizione; a ben vedere il lavoro di sartoria è quella nobilissima arte che ha saputo cavare (e da degli stracci tra i più eterogenei) niente meno che il costume di Arlecchino. E questa Anna Bolena, e il suo bravissimo direttore, al nobile, nobilissimo lavoro di sartoria portano il pensiero. Come sia riuscito Antonio Pirolli a fare una bella Anna Bolena con le premesse dategli in questa occasione ha veramente del miracoloso; si tratta di un direttore-sarto che sa cucire su ogni cantante l’agogica adeguata a garantire delle agilità presentabili, cuce le dinamiche senza clangori in maniera tale da garantire l’udibilità anche quando le voci sono evanescenti, e perfino nell’arte del taglio sa il fatto suo usando le forbici (anche pesantemente, come peraltro le condizioni al contorno richiedevano) sempre senza far perdere contezza dell’abito nel suo insieme. Che poi sappia far suonare agli archi gravi del preludio del duetto Seymour-Enrico fraseggiando con una cura che si riserverebbe a Beethoven (e con questa, mille altri preziosismi cavati dall’orchestra) farebbe meritare al sarto incarichi stabili in maison di ben altro prestigio, ma – si sa – in tempi di meritocrazia inversa, Pirolli dirige molto poco in Italia. Ed è un vero peccato!
Fortunatamente a lui si rivolge spesso il Bellini di Catania (Ernani, Beatrice di Tenda negli ultimi anni), che sa cavare il meglio da qualsiasi cast messogli in mano; e nel cast di questa Bolena, spiace dirlo, gli elementi perfettamente affidabili sono soltanto l’Enrico VIII di Dario Russo e la Seymour di José Maria Lo Monaco. Il giovane basso catanese colpisce per la bellezza dello strumento, molto ben gestito, se si eccettua il registro acuto dove la voce tende a farsi più morchiosa e l’intonazione meno impeccabile; piccoli difetti che, se riparati, consentiranno di guadagnare una pregevolissima voce di basso autentico a suo agio nel belcanto. Anche la prova del mezzo catanese (già udita come pregevole Smeton a Palermo, qualche anno addietro) si segnala per la bellezza delle intenzioni, la cura messa nel legato e nella ricerca di un’emissione morbida e stilizzata, sebbene il peso specifico della voce indirizzi la lettura del ruolo più sul versante dolente; comunque sia, il successo personale nella fiamma indomita e nella cabaletta seguente, con tanto di si naturale, è ampiamente meritato.
Qualche spanna sotto il Percy di Giulio Pelligra che esibisce un miglioramento di assetto, specie nel saldare i registri, ma fatica nei gravi (dal fa in giù) e nella tenuta complessiva del ruolo, nonostante il taglio delle micidiali roulades della prima cabaletta e l’accomodo di quelle della seconda.
Nidia Palacios disegna uno Smeton con abbondante ricorso al registro di petto, più riuscito nella ballata strofica incastonata nella sortita di Anna che non nella cavatina della camera da letto.
A parte il sufficiente Rochefort di Emanuele Cordaro, l’Hervey traballante di Giuseppe Costanzo e una prova del Coro con troppe sbavature, l’anello debole della compagnia è l’aver affidato il ruolo eponimo a Rachele Stanisci, voce dalla modesta avvenenza timbrica, poco proiettata, dalle agilità fortunose e con qualche velleità vagamente callasseggiante giocata sull’accento a coprire tutte le altre mancanze; l’impegno messo nello studio del finale è tangibile, ma pur sempre poca cosa a fronte di quanto il ruolo esigerebbe.
Il nuovo allestimento affidato alle cure di Marco Carniti è sostanzialmente una versione semiscenica beneficiata da costumi di ottima fattura e da un disegno luci poco curato. L’impianto registico è di taglio stilizzato, molto simile a quello del giustamente celebrato allestimento dell’opera visto e rivisto negli ultimi anni, dal quale Carniti prende di peso tante, tantissime idee (il duetto Anna-Seymour con il trono ribaltato e la prima che incorona la seconda, ma l’elenco completo sarebbe troppo lungo!) aggiungendo del suo con la scena della caccia svolta in primo piano durante la cabaletta di Percy (molto teatrale e rispettosa del senso musicale della pagina) oppure con l’illustrazione della tortura di Smeton durante il coro maschile del secondo atto o ancora il regresso allo stato di follia di Anna che rivolge “Tu sorridi?” ad una bambola di pezza; una regia che sa fare il solido mestiere teatrale (inclusi i furti), nonostante una realizzazione scenografica abbastanza maldestra e raffazzonata.
Applausi per tutti, abbastanza tiepidi a scena aperta e più calorosi alle uscite finali, da parte di una sala con molti vuoti, cosa peraltro abbastanza strana per il pubblico catanese, notoriamente molto melomane e sensibile ai titoli di belcanto: si auspica una migliore risposta alle repliche previste fino al 25 gennaio.