La brevità, gran pregio

 di Giuseppe Guggino


L’ultimo lavoro operistico di Hans Werner Henze approda in prima italiana al Teatro Massimo di Palermo come spettacolo inaugurale della stagione d’opera 2015. Il pubblico, piuttosto perplesso sulla cifra stilistica dell’opera invero sfuggente, preferisce tributare gli applausi più convinti alla parte visiva dello spettacolo, affidata alle cure di Emma Dante e del suo collaudato team di collaboratori.

Palermo, 21 gennaio 2015 - Correva l’anno 2011 e Willy Decker (allora sovrintendente alla RuhrTriennale) e Eytan Pessen (direttore della Semperoper Dresden) commissionavano ad Hans Werner Henze, già provato dalla malattia che aveva rallentato la stesura di Phaedra, una nuova opera per giovani cantanti e strumentisti. È così che nasce Gisela! ossia Le strane e memorabili vie della felicità, opera di congedo dalle scene e dal palcoscenico del mondo di Henze, rappresentata il 25 gennaio 2011 a Ruhr e, pochi mesi dopo, a Dresda (con una ripresa nel 2012); sempre alla volontà di Pessen, divenuto nel 2013 uno dei consulenti artistici della gestione commissariale del Massimo palermitano, si deve l’idea di programmare Gisela! in prima italiana come apertura della stagione d’opera e balletto 2015.
Chi verrà a Palermo richiamato dalla novità certamente stimolante rimarrà probabilmente spiazzato nel ritrovare un Henze così marcatamente distante dal suo percorso operistico pregresso, dipanato alla ricerca di un’italianità e un’intelligibilità del discorso musicale che, appunto, nel suo stabilirsi in Italia a partire già dagli anni ’50 ha il fulcro, peraltro valsogli il dileggio di tanti suoi colleghi tedeschi. Ebbene, per nemesi, per quelle strane e inspiegabili circostanze della vita, pur essendo la trama di Gisela! un omaggio all’Italia e, in particolare, a Napoli e pur essendo la partitura organizzata in forme chiuse (sebbene solamente nominali), nulla concede qui la scrittura al compiacimento edonistico e al canto spianato, prediligendo viceversa un percorso frammentario nel quale domina nettamente il parlato e lo sprechgesang, oltre ad una certa tensione orchestrale che rimanda alla scuola di Vienna. Sebbene la brevissima opera non manchi di intuizioni azzeccate e di qualche preziosismo timbrico, sempre allo stato di cluster, di lacerto, di brandello mai più lungo di una manciata di battute, è probabilmente il tessuto connettivo nel quale il tutto e rifuso che manca nel veicolare quell’inno alla vita che, nelle intenzioni dei librettisti Christian Lehnert e Michael Kerstan e del librettista-compositore, è l’obiettivo dichiarato dell’opera.


 

Raccontiamo brevemente la sinossi (invero piuttosto esile), fornendo qualche riferimento musicale utile a connotare la cifra stilistica della partitura; da segnalare come l’allestimento palermitano si conceda molte libertà (in genere migliorative) nella traduzione delle didascalie del libretto. Da un uovo (che nell’allestimento palermitano diventa un gran cono di stoffa bianca) esce la maschera di Pulcinella, al secolo Gennaro Esposito, guida turistica napoletana che, accogliendo il pubblico, si presenta con un monologo parlato; l’orchestra intona un breve Vorspiel atonale e ritroviamo il primo di tre sonetti contemplativi affidati al coro sottoforma di madrigale a cappella, le cui linee di canto procedono prevalentemente per moti paralleli ad intervalli dissonanti (di seconda, in genere). Dopo ci ritroviamo nella stazione di Napoli (tutti i luoghi nell’allestimento palermitano diventano un “non-spazio” metateatrale, una matrioska di sipari), dove giunge un gruppo di turisti tedeschi, tra i quali i giovani Gisela Geldmaier, studentessa di storia dell’arte, e Hans Schluckebier, studente di vulcanologia e suo boyfriend; anche nel successivo incontro con la guida turistica partenopea il discorso musicale non si discosta dallo sprechgesang, sebbene al suo ingresso compaiano in orchestra delle cellule ripetitive (mai associate agli altri personaggi) che possono far pensare a Janáček.

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Un ritornello che certamente riporta alla mente un certo fauvismo dal Sacre di Stravinskij

introduce uno spettacolo al Teatro San Ferdinando (qui un teatrino semovente da piazza) nel quale Gennaro è uno degli attori; segue un terzetto diafano nel quale ognuno dei personaggi principali - a parte - manifesta il proprio rapimento/disagio, incastonato tra un’iniziale citazione della fanfara dall’Orfeo monteverdiano

e un breve ma intenso postludio

Ma non fanno in tempo queste undici battute a ripristinare un orizzonte di sensatezza, che riprende il prosodico procedere frammentario col quale Gisela domanda a Gennaro un appuntamento nel bosco di Capodimonte e Hanspeter, subodorando il tradimento, con un parlato condito da sole percussioni, assolda gli amici Dick, Ed e Dan.
Nel bosco di Capodimonte un malizioso assolo di corno inglese, strumento tipico degli incontri d’amore, dal vertiginoso secondo atto del Tristano al pacchiano duetto del IV atto degli Ugonotti

incornicia un’aria (nominale) di Gisela e il seguente dialogo con Gennaro, chiuso con una tammuriata di percussioni


Il secondo sonetto a cappella conduce la scena nella trattoria “Da Scarlatti” (resa nell’allestimento con un andirivieni di pietanze di cartapesta) aperta da un’arietta di Hanspeter che potrebbe esser presa a prestito dal Pulcinella di Stravinskij

e conclusa dalla fuga di Gisela e Gennaro su di un ostinato melodico che, senza nulla voler togliere al compositore politicamente impegnato, ricorda molte cose del meno impegnato Nino Rota


La seconda parte dell’opera presenta Gisela e Gennaro appena arrivati alla Stazione di Oberhausen; ma non c’è neanche il tempo per lo sviluppo della situazione, che interviene il terzo ed ultimo tedioso sonetto a cappella. Gennaro canta una canzone napoletana (in realtà una composizione da camera dello stesso Henze datata 1956) proposta in duplice versione, una più acuta (che tocca il si bemolle) ed una trasportata una terza sotto (a Palermo si esegue la prima opzione)

prima che i due si addormentino. Qui l’opera si trasforma in pantomima, giacché Gisela fa tre sogni in sequenza, caratterizzati da un progressivo accrescimento di tensione; nel primo i due sono felici ed Henze ricorre ad una trascrizione, optando non già per Pergolesi come forse l’omaggio all’Italia avrebbe potuto suggerire, ma per l’Orgelsonate BWV 525 di Bach, orchestrata con celesta e vibrafono. Le suggestioni timbriche di questi strumenti peculiari, con l’aggiunta dell’arpa, ritornano nel secondo sogno, trascrizione dell’Orgelsonate BWV 529; infine il terzo momento onirico, con le connotazioni dell’incubo, presenta la morte personificata che si aggira tra personaggi delle fiabe dei fratelli Grimm su musica originale di Henze articolata quasi esclusivamente su ribattuti e ostinati

Al termine dell’incubo gli amici assoldati da Hanspeter acciuffano Gennaro e, sulle sciabolate ritmiche di un “Ritornello 2” (così segnato in partitura, ma identico a Ritornello 1, cfr. esempio precedente), con un ritorno a Napoli drammaturgicamente non molto comprensibile (incongruenza attenuata dall’allestimento), i due sfidanti si battono e l’italiano ha la meglio sul tedesco, costretto ad allontanarsi esibendo disinteresse per Gisela, alla maniera un po’ del figlio di papà perdente. Un brevissimo corale, assieme all’improvvisa eruzione del Vesuvio, suggella la libertà e la felicità conquistata.



In questi 75 minuti di musica difficilmente classificabile, sfuggente, ritmicamente ostica, con cambi di metro praticamente ad ogni battuta, il giovane Constantin Trinks può dirsi tecnicamente valido e capace di guidare gli archi (un po’ rimpolpati, rispetto al profilo minimalista 6+6+4+4+1 previsto in partitura), i validi legni e ottoni dell’Orchestra del Massimo, oltre quattro bravissimi percussionisti alle prese con una miriade di aggeggi (vibrafono, glockenspiel, tomtom, maracas, tamburi e tamburelli vari, crotali, gong cinesi e l’elenco è troncato per non occupare inutilmente altre tre righe).
Vanessa Goikoetxea è una voce così piacevole, oltre che ben calata nella parte, che ci piacerebbe riascoltarla anche in altri ambiti del suo eclettico repertorio. Viceversa Lucio Gallo e Roberto De Biasio aderiscono in maniera tanto ideale rispettivamente al parlato di Hanspeter e alla canzone napoletana di Gennaro che si spera possano cantare Gisela! tante altre volte ancora. Del drappello di turisti costituito da Maria Chiara Pavone, Patrizia Gentile, Rosolino Claudio Cardile, Salvatore Grigoli non fatica ad emergere l’interessante Giuseppe Esposito.
Infine la cosa più riuscita della serata: lo spettacolo di Emma Dante che, seppur alle prese con un testo drammaturgicamente inconsistente, nonostante una componente musicale ostica se non talvolta di zavorra alle ragioni del teatro, con qualche trovata un poco ruffiana (che gli animali da palcoscenico sanno tirare fuori, quando le circostanze lo richiedono), qualche autocitazione e quel poco di volgarità che in fondo non disturba, riesce a confezionare un spettacolo variopinto, affascinante. La coadiuvano quella garanzia nei costumi offerta da Vanessa Sannino, le coreografie (cruciali nei sogni di Gisela) di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco; pare più stanca, invece, la mano di Carmine Maringola che per le scene, come anticipato, ricorre ad una fuga prospettica di sette sipari (identici a quelli del Massimo) e a statuine di santi, cannoli e cassate (in luogo di zeppole e babà), fiori da spostare di continuo durante il duetto e un bel coup de théâtre con il Vesuvio nel finale.
Opera breve, applausi poco convinti (a parte quelli per Emma Dante) e di brevissima durata: la brevità, gran pregio.

foto Studio Camera

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