Ah, dunque fu delirio la credula speranza

 di Andrea R. G. Pedrotti

 

Il capolavoro verdiano nel celebre allestimento di Svoboda e Brockhaus segna un nuovo successo al Filarmonico di Verona. Fra i tre giovani protagonisti, Francesca Dotto e Antonio Poli mettono in luce qualità assai promettenti, mentre brilla la stella già consolidata di Simone Piazzola, baritono men che trentenne e destinato a un luminosissimo avvenire.

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VERONA, 25 gennaio 2015 - Trionfa La traviata di Giuseppe Verdi al teatro Filarmonico di Verona; trionfo al botteghino con la sala completamente esaurita e trionfo sul palcoscenico.

La regia di Henning Brockhaus, adattata per uno spazio chiuso, non dimostra segni di invecchiamento, anche se la riduzione per un teatro tradizionale crea svantaggi e vantaggi. Per comprendere appieno la messa in scena è necessario aver confidenza con il testo di Dumas fils, da cui fu tratta l'opera. Indendiamoci, lo spettacolo può risultare ugualmente godibile in ogni caso, ma i molti riferimenti al testo letterario accrescono la partecipazione dello spettatore che abbia letto con attenzione La Dame aux Camèlias. Il preludio vede l'apertura dell'immensa lastra di fondo (il famigerato specchio) che disvela il sogno e, al contempo, è lo schiudersi della tomba della signora dalle camelie. Il romanzo di Dumas è un sogno irreale; egli visse effettivamente una controversa relazione con la cortigiana parigina Marie Duplessis, ma la maggior parte delle vicende che Armand Duval racconta al narratore del romanzo (che poi diventa Duval stesso) non sono che frutto dell'immaginazione di un giovane che sognava di avere solo per sé la donna che fu di tutti e di nessuno. Noi vediamo la speranza dell'amore impossibile fra i due e la sua tragica conclusione (non a caso Verdi avrebbe preferito intitolare l'opera Amore e morte). Dal dischiudersi dello specchio appaiono i primi due emblematici personaggi: un uomo ricco, avanti con gli anni, che dona a una ritrosa dama, riccamente vestita, preziosi orpelli, guadagnandone l'effimero affetto. Agli occhi del pubblico viene messo subito in evidenza il mercimonio del sesso femminile, tanto amato dall'alta borghesia d'un tempo. Considerando che l'azione del primo atto si svolge su tutta la profondità della scena, lo specchio aiuta molto a far vedere, da ogni angolo della sala, i particolari intimi della perversione orgiastica dei ricevimenti a casa Valery. I costumi sono nello stile d'una tarda belle époque e potrebbe apparire un errore che tutte donne vestano abiti da sera, mentre gli uomini da pomeriggio, ma è un sogno raccontato, non c'è realismo e la donna è l'oggetto del desiderio cristallizzato in quest'immagine. Un unico appunto registico si potrebbe fare al duetto “Un dì, felice, eterea”, dove viene meno l'ambientazione intimistica. Questo è l'unico tradimento al romanzo che immagina Marguerite e Armand in una stanza, soli, illuminati da un'unica condela, con lei riversa su un canapè (questo è stato rispettato) e il giovane, che, preoccupato, la segue per sincerarsi delle sue condizioni. È ovvio che la presenza di numerose comparse ai lati sia dovuta al fatto che il palco di uno spazio particolare come lo Sferisterio di Macerata andasse riempito, mentre in un normale teatro all'italiana l'intimità dei loro progetti amorosi appare un po' troppo affollata. L'aria di Violetta è solitaria, come giusto che sia essendo una riflessione intima, mentre nel finale d'atto viene circondata dall'intera schiera degli avventori, che, salutandola, paiono opprimere il suo essere.

Il primo quadro del secondo atto è estremamente scarno di elementi scenici, mentre le immagini riflesse mutano da una casa di campagna a un campo di margherite, fiori omonimi alla protagonista del romanzo. Dumas stesso cita un prato di quei bianchi fiori, ove l'amata di Armand amava recarsi per riflettere. Il quadro termina con la poiezione delle foto di della famiglia Germont. Molto interessante la caratterizzazione di Annina, non semplice domestica, ma più amica e frivola dama di compagnia, come la Nannine letteraria. Il secondo quadro è molto più classico nella regia, con tanto di una sensualissima danza di zingarelle e toreri. Il coro riprende Alfredo per l'insulto a Violetta nell'immobilismo, perché in un sogno il dolore fisico, i ceffoni di un padre severo o le spinte di un amante offeso non esistono. Il tormento dell'anima, sì. Questo porta nel migliore dei modi al celeberrimo “Ah sì!...che feci! ne sento orrore!..” L'atto teatralmente più bello è sicuramente il terzo: le stanze di Violetta sono spoglie nei giorni di Carnevale (crudele ossimoro fra la sua sofferenza e la gaiezza dei passanti), in ossequio ai giorni in cui morì Alphonsine Plessis (vero nome di Marie Duplessis), poiché Francesco Maria Piave scrive che la scena si svolge in febbraio (lei morì il tre di quel mese), nel romanzo il decesso avviene esattamente un mese dopo, mentre la pièce di Dumas termina a capodanno. Bellissimo effetto finale con lo specchio a richiudersi, riflettendo l'immagine del teatro alla sala stessa. Nell'esalare l'ultimo respiro, e credendo di tornare a vivere, Violetta muove faticosi passi verso il sogno dorato del suo passato e cade a terra esanime. Quadro finale e applauso dedicato alla triste fanciulla. Tutto fra realtà e irrealtà: il delirio della credula speranza.

La lunga, ma doverosa, descrizione registica non deve sviare dall'aspetto musicale, comunque di alta qualità. Antonio Poli è un tenore giovane e difetta - talvolta - nel fraseggio. L'aria è ben cantata, senza l'esiziale esecuzione del do conclusivo, ma la prova di Poli risulterebbe piuttosto anonima, se non fosse protagonista di un grande crescendo interpretativo da “Mi chiamaste?...Che bramate?”, fino alla bellissimo accento su “No, non morrai, non dirmelo/ déi viver, amor mio...” Viste la giovane età e la maturazione si può essere fiduciosi sull'immediato futuro: la voce è gradevole, anche se un po' piccola e bisognosa di alcune migliorie in uno squillo che viene fuori solo a tratti, dimostrando comunque così di essere nelle potenzialità dell'artista. Francesca Dotto risolve molto bene il primo atto, quello a lei più ostico, e si dimostra ottima Violetta quando l'accento lirico debba prendere il sopravvento. La cabaletta “Sempre libera” è eseguita con attenta precisione, fino a un Mib ben centrato, con il quale non chiude il suo canto, che termina all'ottava inferiore. Autentico trionfatore della serata è Simone Piazzola, che si può definire, ormai, artista completo. Il timbro è bellissimo, il fraseggio incisivo e la personalità invidiabile. Così, anche senza gesti evidenti, riesce a trasmettere l'autorità del severo Giorgio Germont, capace di placare le ire del figlio con un solo sguardo di rimprovero. Piazzola sicuramente è un grande baritono del presente e si sta proponendo prepotentemente come un grandissimo del futuro. Egli rappresenta quella nuova generazione di cantanti che possono definirsi artisti a pieno titolo.

Fra i comprimari è da segnalare la prova di Nicolò Ceriani e Alice Marini: il primo è attore di altissimo livello, che, come pochi altri, riesce a dar significato e spessore a ogni frase, mentre la seconda è scenicamente efficace e mette in mostra uno spessore vocale raro in un ruolo così marginale. Delude, al contrario, la Flora di Elena Serra, poco disinvolta nella recitazione e troppo spesso afona nell'emissione.

Bravo l'esperto Antonello Ceron (Gastone), si confermano grandi professionisti in crescita Dario Giorgelé (Marchese d'Obigny) e Francesco Pittari (Giuseppe). Romano Dal Zovo interpretava il doppio ruolo del domestico e del commissionario. Grande soddisfazione per il Dottor Grenvil di Gianluca Breda, cui è stato concesso un sonoro “È spenta!” al termine dell'opera.

Marco Boemi accompagna bene i cantanti; non c'è una grande originalità esecutiva e di dinamiche, ma la sua direzione è affidabile, le sezioni sono estremamente equilibrate e non si notano sbavature orchestrali di nessun tipo. In molti punti sarebbe preferibile maggior impeto, tuttavia gli va riconosciuto di aver eseguito l'opera integralmente, a eccezione di qualche taglio minuto. A questi se ne sommava uno più vistoso: non si comprende bene perché non sia stata concessa a Francesca Dotto l'esecuzione della seconda strofa dell'Addio del passato. Considerata l'idea registica, la frase “La tomba ai mortali di tutto è confine” sarebbe stata di un'efficacia tetrale rara, anche per l'espressività partecipata della Dotto nel terzo atto. Esecuzione integralissima, viceversa, di “Parigi, o cara” e del finale.

Le luci erano a cura dello stesso Brockhaus, i bozzetti scenografici di Josef Svoboda, la ricostruzione scenografica di Benito Leonori, i bei costumi (soprattutto il semplice abito di campagna di Violetta) e la coreografia di Valentina Escobar.

Il coro, in forma strepitosa, è stato diretto da Vito Lombardi e il corpo di ballo, diretto da Renato Zanella, ha concesso alla produzione due bravissimi primi ballerini e tre prime ballerine, tanto abili quanto avvenenti.

L'allestimento è nella versione per teatri al chiuso di proprietà della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi.

foto Ennevi