Il crepuscolo della diva

 di Claudio Vellutini

 

Quella che pare essere con ogni probabilità l'ultima opera in forma scenica interpretata da Edita Gruberova si trasforma in un omaggio alla Diva e in una sorta di supremo compendio della grandezza e del tramonto della primadonna slovacca.

VIENNA, 14/01/2015. Ci sono dive dal tramonto precoce; altre, invece, sembrano non tramontare mai. Con i suoi quarantasette anni di carriera alle spalle Edita Gruberova appartiene indubbiamente alla seconda categoria. Quando però si rumoreggia (con qualche fondamento) che la produzione in considerazione sarà l’ultima apparizione della primadonna in un’opera in forma scenica, la sensazione di assistere ad un evento storico è palpabile. Del pari, è inevitabile lasciarsi sopraffare dalla nostalgia—sia per ciò che la Gruberova era (e non è più), sia per ciò che viene mancare con il suo ritiro dalle scene.

E’ inutile girarci intorno: il tempo ha inevitabilmente lasciato il segno sulla voce di un’artista di 68 anni suonati. E se fino a pochi anni fa, lo scorrere delle primavere sembrava solo occasionalmente intaccare l’autorevolezza tecnica dell’esecutrice, oggi la situazione sembra capovolta. La prima recita de La straniera di Vincenzo Bellini al Theater an der Wien, infatti, ci restituiva solo alcuni (talora perfino lunghi) momenti che ci ricordavano i tempi d’oro della Gruberova. Spesso però si aveva l’impressione che la cantante lottasse con se stessa e con un apparato muscolare e fonatorio ormai difficile da gestire. Detto questo, però, sarebbe riduttivo limitare il giudizio della recita alle defaillances vocali della primadonna. Quello a cui abbiamo assistito era soprattutto un affettuoso, commosso e doveroso omaggio di una città e di un pubblico a una delle cantanti che hanno “fatto” la storia recente della vita musicale cittadina. E di statura storica è doveroso parlare nel caso della Gruberova, che quest’anno festeggia pure il quarantacinquesimo anniversario dal debutto alla Staatsoper.

Durante questi anni, il soprano slovacco ha dapprima rivoluzionato il modo di cantare Mozart e Strauss, unendo agilità, un’estensione stratosferica del registro sopracuto e superiore padronanza tecnica a un corpo vocale tutt’altro che esile e ad un timbro pastoso, rotondo e lirico, anni luce dalle petulanze dei soprani leggeri di tradizione. Queste caratteristiche le hanno consentito il passaggio graduale ai ruoli del belcanto italiano ottocentesco, di cui la Gruberova è diventata esponente di punta dopo il ritiro dalle scene di Joan Sutherland — dapprima Lucia, I puritani e La sonnambula, poi titoli di maggior peso drammatico quali Roberto Devereux, Anna Bolena, e più recentemente Norma, Lucrezia Borgia e per l’appunto La straniera.

Nell’affrontare quest’ultimo titolo, la Gruberova si è dimostrata ancora padrona di una voce penetrante e quasi immutata di timbro, sebbene visibilmente accorciata nei registri estremi. In numerosi passaggi durante il primo atto, la cantante ha fatto valere ancora una volta una gestione impressionante delle dinamiche, che spaziavano da eterei pianissimi (una delle sue cifre stilistiche inconfondibili) a penetrati sferzate nei momenti più concitati. Ciò che sembra gradualmente venire meno, tuttavia, è il sostegno muscolare alla fonazione, che spesso risulta in un’intonazione incerta e in un canto di coloratura (perlatro assai ridotto in quest’opera) ormai approssimativo. Nel corso degli ultimi anni, questi limiti sembrano aver suggerito alla Gruberova di rifugiarsi in soluzioni musicali discutibili, che anche in questa occasione tarpavano le ali a una resa efficace della parte.

Il resto del cast adempiva alla funzione di decoroso contorno. Unica, rilevante eccezione, era quella di Franco Vassallo, che rendeva autorevolmente e con lodevole adesione espressiva la parte baritonale di Valdeburgo. Dario Schmunck era un Arturo dalle doti vocali interessanti, ma di scarsa incisività. Theresa Kronthaler tratteggiava un’aggraziata Isoletta, Vladimir Dmitruk un Osburgo mellifluo e Stefan Cerny metteva in luce un promettente strumento nella breve parte del Priore. Insufficiente, invece, la prova di Martin Snell (Montolino). Il direttore Paolo Arrivabeni affrontava la partitura belliniana più con slancio che con abbandono, ma portava in dote anche un’attenzione encomiabile al dettaglio. Buona la prova dell’orchestra dell’ORF (la radio di stato austriaca) e al di sopra di ogni elogio quella dell’Arnold Schönberg Chor diretto da Erwin Ortner.

L’allestimento di Christoph Loy cercava di leggere l’intricata (e a tratti poco credibile) trama in chiave psicanalitica, con Arturo costantemente ossessionato dall’idea del suicidio e Isoletta in funzione di “doppio” di Alaide. Il merito principale della regia era quello di gestire efficacemente i movimenti scenici, soprattutto delle masse corali, ma l’idea di fondo sembrava remare contro i delicati equilibri drammaturgici dell’opera, non rendendo giustizia né all’atmosfera romantica che pervade la partitura né alla dimensione storica che giustifica l’esito della vicenda. Va sottolineato, piuttosto, il tentativo del regista di unire idealmente questo spettacolo agli altri due che lo hanno visto collaborare con la Gruberova (Roberto Devereux e Lucrezia Borgia, entrambi per il Nationaltheater di Monaco di Baviera). La serie di rimandi e suggerimenti visivi testimoniano quanto la cantante abbia saputo adattare il proprio status di primadonna in piena temperie da Regietheater. In tal senso, la scelta di questo spettacolo (proveniente da Zurigo) contribuisce alla cornice celebrativa con cui Vienna ha deciso di rendere omaggio alla propria beniamina.