I puritani fiorentini o del concettoso

 di Stefano Ceccarelli

Il novello Teatro dell’Opera di Firenze ospita i suoi primi Puritani: allestimento registicamente curioso, che ha diversi punti di forza. Il cast vocale è complessivamente di livello, tranne qualche eccezione; il direttore d’orchestra fa quel che può. Affascina e incuriosisce la particolare regia di Ceresa; ma lascia anche perplessi, in più di un punto. L’impressione complessiva, soprattutto se si prescinde da alcune concettosità, è abbastanza positiva: ma si devono mentalmente sfrondare le molte sovrapposizioni e arditi rimandi che costellano la regia, che si potrebbe meglio apprezzare con una lettura più impressionistica, piuttosto che − paradossalmente − rimanendo troppo aderenti alle originali intenzioni.

FIRENZE, 30 gennaio 2015 – In seno all’interessante programmazione per la corrente stagione (2014-2015) del Teatro dell’Opera di Firenze, certamente I puritani di Vincenzo Bellini hanno un posto d’onore. L’opera è tra le più difficili mai pensate e composte, scritta ad hoc per cantanti eccezionali, come gustosamente ci ricorda Honoré de Balzac: «che belle serate ho passato al Théâtre Italien quando Lablache, Rubini, Tamburini, la Grisi cantavano insieme! Oh! I puritani! La sola musica da mettere accanto a quella di Rossini». Mettere in scena, oggi come ieri, I puritani vuol dire molto spesso fare un gesto di harakiri, per più ragioni: l’assenza di direttori in grado di digerire e sorreggere una sintassi musicale tanto complessa, e di cantanti in grado di riprodurla nel miglior modo possibile, per fare due esempi. Ma per nostra fortuna, sovente si trova qualche coraggioso che voglia tentare l’impresa e, magari, in parte riuscire in un esito, se non ottimo o buono, almeno dignitoso.

Affidare un’opera di tale complessità a una bacchetta che, seppur rodata da anni di carriera, non è mai assurta all’Olimpo dei direttori d’orchestra (e un motivo, chiaramente, c’è), costituisce ovviamente un rischio. E la scelta di Matteo Beltrami è stata solo in parte ripagata dai risultati. Il direttore è restio a abbandonarsi a lunghi respiri sul fraseggio delle frasi, a interpretare la sintassi musicale per lunghe arcate; l’impressione è quella di una partitura un po’ franta. Ciò si percepisce palpabilmente nelle sezioni esclusivamente orchestrali, come l’introduzione, dove quel carattere squisitamente marziale risulta troppo calcato; nell’uragano del III, invece, fa decisamente meglio. Il punto di forza di Beltrami è sicuramente la concertazione delle voci, cui dà il giusto spazio, non facendole subissare mai dall’orchestra; orchestra su cui, mio malgrado, non posso esprimere un giudizio adeguato, giacché l’acustica della sala è (volendo usare un eufemismo) pessima, tanto scandente quant’è esteticamente appagante l’impianto architettonico. In ogni caso, la stessa orchestra non brilla per particolari raffinatezze, ma non commette neppure errori grossolani. Troppi i tagli e inammissibili, visto che oggigiorno il pubblico è ben preparato anche su edizioni complete in CD.

L’Elvira di Jessica Pratt è una certezza. L’australiana, campionessa di raffinata tecnica e buon gusto in fatto di belcanto, è una delle poche cantanti al mondo a poter degnamente sostenere il ruolo; e durante la recita sciorina tutto il suo repertorio di prodezze, come le funamboliche messe di voce sui filati, gli intonatissimi picchiettati, le noticine infiorettate nelle variazioni e gli adamantini sovracuti. Peccato entri in scena un po’ sottotono, non regalandoci tutta sé stessa: non ci fa gustare appieno il bel «Sai com’arde in petto mio». Poco male: si riprende, infatti, in tutto il suo splendore e ci regala uno strabiliante concertato a seguire la cavatina di Arturo, dove inanella dei filati con messe di voce che fanno cadere il teatro − e la cosa più impressionante è la potenza del suono, terso, puro, che sfida la pessima acustica della sala! La polacca («Son vergin vezzosa in veste di sposa») è brillante e presenta delle personalissime e frizzanti variazioni. Ma è nella scena della pazzia che il suo timbro etereo, morbidamente argenteo trova il miglior modo di esprimersi; peccato per il grossolano errore di intonare l’inizio del cantabile «Qui la voce sua soave» invece del tempo di attacco, restroscenico, «O rendetemi la speme», creando un pasticcio da cui non sa tirarsi fuori (infatti, resasi conto dell’errore, non canta un’intera frase musicale). Autentici fuochi d’artificio ci regala nella cabaletta, «Vien, diletto è in ciel la luna»: straordinari gli acuti e le difficilissime variazioni. Arturo è cantato da Antonino Siragusa. La sua voce granulosa e monocorde non è certo il massimo per una parte come questa, scritta per l’immortale Giovan Battista Rubini; inoltre, Siragusa non fa che concentrarsi esclusivamente sugli acuti e i sovracuti (che costituiscono − è vero − lo zoccolo duro della parte, ma non certo la sua totalità), sacrificando il fraseggio, l’eleganza e lo charme della tessitura: qualche nota di tanto in tanto esce ben tornita, ma la sua performance è intrisa di un andamento stentoreo, impacciato. Se questa tendenza si nota distintamente fin da «A te, o cara, amor talora» e dal duetto con Enrichetta, è nel III atto (l’atto di Arturo, almeno nella prima versione) che i problemi peggiorano; fa eccezione la romanza «A una fonte afflitto e solo», che è forse il solo brano vagamente convincente della sua intera performance. Il parossismo lo raggiunge in «Credeasi misera»: dopo aver sparato ogni acuto possibile di petto − acuti, peraltro, sovente interpolati −, l’unico sovracuto elegantemente presente in partitura, il temibile fa4 (pensato per il nobile falsettone di Rubini e che non richiederebbe esecuzione di petto), non lo esegue, a grave detrimento della bellezza del pezzo. Il Riccardo di Massimo Cavalletti è energico e prorompente. In barba alla tecnica e alla prudenza, il baritono dal caldo vibrato sciorina dall’inizio alla fine un’ottima potenza, riuscendo a far esplodere fulmineamente la voce. Peccato che alla fine di una buona esecuzione della sua cavatina («Ah! per sempre io ti perdei») debba sacrificare la cadenza per concentrarsi solo sull'acuto, perlomeno uscito benissimo − altrove, però esagera, come alla fine del II atto: l’impressione generale è che il direttore avalli un eccessivo narcisismo dei cantanti. Molto intenso il duetto del II con Giorgio, cantato da un ottimo Riccardo Zanellato, che si distingue durante tutta la recita per dedizione al ruolo, precisione, volontà di imprimere un colore e un senso al fraseggiare; e se non possiede propriamente l’allure vocale per la parte, pure la resa è encomiabile − mi viene in mente la dolcezza del cantabile del duetto (I) con Elvira, «Sorgea la notte folta», la contrita delicatezza della romanza (II) «Cinta di fiori e col bel crin disciolto», o la baldanza guerresca della cabaletta del duetto con Riccardo, «Suoni la tromba, e intrepido». Ottimi tutti i comprimari. Per quanto breve, Saverio Fiore riesce a dare un senso alla parte di Bruno; Gianluca Margheri è un autoritario Valton, dalla straordinaria, statuaria presenza scenica; veramente eccellente l’Enrichetta di Rossana Rinaldi, che restituisce sangue a un ruolo generalmente bistrattato. Buonissima anche la recita del coro (Lorenzo Fratini).

La regia di Fabio Ceresa è certamente singolare: che piaccia o meno, va notata la sua originalità in un panorama di un grigiore imbarazzante. L’impatto visivo è quello di una reinterpretazione dell’ambientazione primo-secentesca tra il medievale noir e il dark-gothic, con elementi futuristici. L’idea della regia è assai ardita, ai limiti di una (incomprensibile) concettosità: un gioco di rimandi e viaggi nel tempo avanti e indietro, “einsteinianamente” possibili per la curvatura spazio temporale. Riccardo all’inizio dell’opera piange sulla tomba della stessa Elvira − fra zombie puritani che emergono da sparsi avelli −, destinata a morire d’amore per colpa della partenza di Arturo, in realtà un viaggio astrale di trecento anni; solo Arturo libererà il fantasma d’Elvira assieme a quello degli altri fantasmi puritani imprigionati, nel III atto. Il tutto risulta, ovviamente, assolutamente oscuro a chi non legga le note di sala, ma si limiti a guardare lo spettacolo. Anzi, dirò di più: la regia forse è ancor più godibile sottacendo tali interpretazioni, francamente troppo sottili. Ceresa ha il pregio di creare una regia dove la staticità dei tableaux alla Pizzi si coniuga con un senso dello spazio (quasi) sempre ben amministrato. Certo, i cantanti non sono mostri di recitazione: ma nell’opera, si sa, va così. Alcuni punti però sono incomprensibili: quella strana danza tra coro e cantanti alla fine del II atto o lo svenimento collettivo del finale III (eccetto Riccardo…). Un momento autenticamente magico, invece, è stato il gioco del gigantesco velo nero fatto volteggiare in aria dai mimi durante l’entrata di Arturo nel I, che richiama il velo nuziale, volutamente nero e evocante la futura (o passata?) ‘morte’ di Elvira. Tiziano Santi pensa delle scene ad hoc per questo particolare “colore” registico: la volta di una cattedrale gotica, prospetticamente vista dal basso, fa da sfondo ai vari atti − mano a mano andrà crollando, con sempre meno pezzi, per suggerire lo scorrere dei tre secoli. Una prospettiva così ardita colpisce e ammalia, trasmettendo un senso di caliginosa claustrofobia, interrotta dai colori sgargianti dei costumi (si pensi, su tutti, a quello di Enrichetta): costumi di ottima fattura, quelli apprestati da Giuseppe Palella, risaltati da un sapientissimo gioco delle luci, che ne esalta le tinte contrastanti, ossimoriche − procedimento, questo, ancora di ascendenza pizziana. I costumi di Elvira hanno quel tocco futuristico nella coda a cerchi metallici, che ricompare nelle due versioni da nubile e da sposa; quelli di Arturo e Riccardo sono giocati con i luccichii a strass presenti nel corpetto, che spezzano, invero un po’ troppo, la scelta di ambientazione. I costumi del coro femminile hanno un che di orientaleggiante, non perfettamente perspicuo alla luce della scelta dell’ambientazione. I giochi di luce che riesce a creare Marco Fillibeck sono invidiabili: un momento indimenticabile è stata la preghiera durante l’aurora (I atto), con la luce che penetrava dall’alto, filtrata, autenticamente divina.

Dei buoni Puritani, dunque, con diverse pecche, ma di livello per resa e originalità rispetto al grigio torpore che attanaglia, ahimè, la lirica italiana contemporanea.

©Pietro Paolini/TerraProject/Contrasto