L'inganno del cigno

 di Suzanne Daumann

 

L'interessante e anticonvenzionale lettura politica del Lohengrin proposta dal regista Carlos Wagner si arena purtroppo in alcune falle logiche. Non così la parte strettamente musicale, nel complesso convincente.

RENNES, 2 febbraio 2015 - All'Opéra di Rennes si "osa l'esperienza wagneriana", con risultati piuttosto alterni. Lohengrin è la leggenda di un cavaliere che giunge incognito e al quale è proibito domandare il nome; durante la notte nuziale, sua moglie, una giovane che aveva appena salvato da un'accusa ingiusta, gli pone il quesito e in un istante lo perde. Cruciale in questa vicenda, e la ragione per cui essa ci parla ancora oggi con tale forza, è il tema della fiducia nella coppia e della fede cieca all'interno di una società.

Carlos Wagner, regista di questa nuova produzione dell’Opéra di Rennes, in collaborazione con il Landestheater Coburg e l’Opéra di Rouen Haute Normandie, vede un parallelo con personaggi politici del XX secolo, apparsi come salvatori a patto che si obbedisca loro ciecamente, e opta per una messa in scena ancorata più alla vita reale che al mondo delle favole. Di conseguenza, la scenografia (Rifail Adjarpasic) consiste essenzialmente in una piattaforma a più livelli, sulla quale sono allineate lunghe tavole e delle sedie, un pulpito per un oratore al centro. Quest'ultimo servirà ai cantanti, di volta in volta, per esporre il proprio punto di vista. I personaggi utilizzeranno i diversi livelli e le tavole per l'azione scenica. Ai lati, degli scaffali pieni di cartoni da cui puntano delle carte. Un'enorme radice d'albero attraversa il soffitto, vagamente minacciosa: un mostro?

Dal levarsi del sipario, i coristi, in costumi che ricordano vagamente degli abiti da lavoro, tute e bluse anni '30, in colori terrei, sono indaffarati, telefonano - con il crescendo del preludio si affaccia un senso d'urgenza. Re Heinrich (Gregory Frank) prende la parola per salutare il popolo del Brabante e domandare fedeltà di fronte a una minaccia di guerra. Ma il ducato è nel caos e il sovrano domanda una spiegazione. Friedrich von Telramund, interpretato con voce calda e azione intensa dal baritono Anton Keremidtchiev, lancia la sua accusa contro Elsa: la figlia del defunto Duca di Brabante avrebbe ucciso il fratello, legittimo erede. Kirsten Chambers, bionda, giovane e delicata, le conferisce un'aria di totale innocenza. Con un cappotto maschile su una camicia, sembra perduta nel suo mondo, poco interessata ai processi. Finisce per dichiarare che ha visto in sogno un cavaliere che la difenderà in un duello. Telramund accetta tale giudizio divino per confermare o confutare la sua accusa e l'Araldo (Nickola Efremov) chiama il difensore di Elsa. Al terzo appello, la scena di apre in due, e nel corridoio formatosi al centro appare, bagnato da una luce dorata, appare... che cosa? Un blocco grigio, indefinito, che avanza dolcemente e sul quale si trova un uomo tutto in bianco e, davanti a lui, in ginocchio, un altro uomo, in camicia di forza. Qui si rasenta il ridicolo. Da dove viene questa camicia di forza?

L'uomo in bianco è, dunque, Lohengrin, il tenore Christian Voigt. La sua veste candida, metà uniforme metà abito clericale, lo definisce subito come cavaliere legato al mondo spirituale. Con il suo timbro schietto e brillante, assai poco "Heldentenor", questo Lohengrin è più umano che sovrumano, cosa che contraddice un po' la sua veste marziale. Le scene d'amore con Elsa cadono a vuoto, né l'uno né l'altra dei due protagonisti abbraccia veramente il suo ruolo e il suo partner. 

Ortrud, da parte sua, nell'interpretazione di Catherine Hunold è ben presente, vivida, perfida con Elsa e isterica comme il faut quando il le faut.

Così il dramma si sviluppa, a stento, punteggiato da interrogativi: la camicia di forza è il simbolo dell'incantesimo? Buona idea, ma allora in che rapporto si pone con il resto dello spettacolo? I costumi rendono bene, nel bianco di Lohengrin e nell'abito di Elsa - dall'aria non finita e non senza ragione - che si contrappongono al nero di Telramund e Ortrud. Ma, se alla fine è Ortrud a salvare il popolo dal falso salvatore (se si porta l'idea iniziale fino alla fine), perché caratterizzarla come cattiva? Alcune falle logiche, dunque, in questo allestimento, peraltro piacevole per quanto riguarda la resa musicale e i singoli cantanti.

Avrei fatto meglio a lasciare il cervello spento, credo, e restare in compagnia della musica.

Rudolf Piehlmeyer dirige l’Orchestre Symphonique de Bretagne con acuto senso del dramma, forza e raffinatezza. E il coro dell’Opéra di Rennes, sotto la direzione di Gildas Pungier, è sublime, come sempre.