Dotto, nuovo stile nella Traviata

di Francesco Lora

Decine e decine di recite del capolavoro verdiano perpetuano lo spettacolo di Robert Carsen al Teatro La Fenice. Nelle recite di febbraio, Omer Meir Wellber esibisce passione e virtuosismo da padrone di casa, mentre protagonista è l’altrettanto giovane rivelazione Francesca Dotto.

VENEZIA, 21 febbraio 2015 – Il Teatro La Fenice possiede il miglior allestimento della Traviata visto in Italia da dieci anni a questa parte: regìa di Robert Carsen e scene e costumi di Patrick Kinmonth. È lo spettacolo con il quale il palcoscenico veneziano, dopo l’incendio, fu restituito al pubblico nel 2004; da allora è stato ripreso con continuità, ribadendo lo speciale legame di Venezia col capolavoro di Giuseppe Verdi e costituendo il biglietto da visita di una fondazione lirica immacolata. Trasportata l’azione ai giorni nostri, v’è un solo dettaglio che tradisce l’invecchiamento dei materiali: nell’atto III, il televisore senza segnale che rischiara l’agonia di Violetta è ancora a tubo catodico, reperto archeologico dopo il rapido dilagare di schermi piatti a LED. L’idea registica vanta però eterna giovinezza: non si lascia distrarre da paratesti pretestuosi e ficca invece lo sguardo nell’evidenza delle situazioni, nello scavo della parola e nell’ascolto della musica. I cantanti, tutti resi veri attori, rendono inconfondibili i rispettivi personaggi sino all’ultimo dei comprimari. I simboli – vedi il fluttuante piovere autunnale di banconote dagli alberi – sono insieme luogo di bellezza visiva e di messaggio tagliente. E tanto altro si potrebbe dire: ma, in uno spettacolo da vedere e rivedere, con in più il dono della chiarezza, molto già si sa.

I numeri impressionano: dopo aver inaugurato la corrente stagione d’opera della Fenice, insieme con il Simon Boccanegra, La Traviataconta ben 38 repliche suddivise in più cicli di recite sino a ottobre. Nelle quattro recite del 13-21 febbraio, la concertazione è spettata a Omer Meir Wellber, il direttore israeliano che unisce all’ancora giovanissima età un carisma da vertigine: dall’inizio dell’anno, alla Fenice egli ha fatto man bassa di titoli, eseguendo prima I Capuleti e i Montecchi, e quindi, a giorni alterni, L’elisir d’amore, questa Traviata e il Don Pasquale. Ancora numeri: se contano, ecco in Wellber l’attuale direttore musicale de factodel teatro veneziano, e il principale candidato alla successione del ben più diafano Diego Matheuz. Contano ancor più l’affetto e la stima che Wellber gode presso pubblico e maestranze fenicee. A spiegarlo è anche questa Traviata, letta con formidabile attenzione all’insieme, tracciata con pennellate poderose e appassionate, vista con la stessa preziosa franchezza di Carsen. Senz’ombra di calligrafia, si inserisce la virtuosistica cura dei particolari: qui l’assottigliamento dinamico che procede con graduata e perversa lentezza, là l’esplosione improvvisa a pieni giri d’orchestra; qui lo spazio d’incorniciare l’assolo magistrale di un professore, là i mille fantasiosi modi di rubare istanti al tempo ternario che innerva la partitura. Peccato per i sacrileghi tagli di tradizione, nel cantabile di Violetta e nelle cabalette dei due Germont. Per il resto, l’uomo che ci vuole.

Nel riferire di Violetta si consacra una nuova primadonna: Francesca Dotto, ventisette anni, è soprano di calibro lirico-leggero che già lascia intravedere l’evoluzione verso il lirico pieno; ci abituerà presto a riconoscere il suo timbro delicato, femminile, naturale; vanta omogeneità lungo tutta la gamma, conversando con sostanza nel registro centrale e salendo sicura al Mi bemolle sopracuto; sgrana con nettissima articolazione i capricciosi abbellimenti nell’atto I e fa valere ovunque un legatod’alta scuola; è non solo una donna di benvenuta bellezza, ma anche un’attrice disinvolta e riflessiva, e una musicista intelligente e scrupolosa. Alla parata di alte referenze e indizi sparsi corrisponde un personaggio rare volte visto così profumato di adolescenza e così mutevole dall’introversione all’entusiasmo. Una grande scoperta cui si affida parte dei sogni futuri. Timbro radioso, misurata eleganza ed essenza amorosa si trovano, a loro volta, nel tenore Francesco Demuro, un Alfredo di consumata esperienza il quale non teme l’esibizione del Do sopracuto al termine della cabaletta. Piace, come sempre, Luca Salsi: la sua voce baritonale è tra le risorse oggi più preziose per l’esecuzione di Verdi; piace con riserva, tuttavia, poiché la scelta di definire un Giorgio Germont protervo e anziano gli fa anteporre la vilaniealla noblessee il porgere spigoloso alla rotondità dell’emissione.