L'essenza di Aida

 di Giovanni Chiodi

 

Antonio Pappano offre una lettura tesa, serrata, accesa, potente, scandita nel ritmo, ma nello stesso tempo attenta a colori, sfumature, contrasti. Ben gli risponde il Radamès di Jonas Kaufmann, in stato di grazia. L'Aida dell'Accademia di Santa Cecilia non delude le - altissime - aspettative nonostante qualche carenza della protagonista.

ROMA, 27 febbraio 2015 - L’Aida di Sir Antonio Pappano, con i complessi di Santa Cecilia, il debutto di Jonas Kaufmann come Radamès e un cast di altri nomi ragguardevoli si annunciava da sé come un evento di interesse globale. Un concerto nato come appendice alle sessioni di registrazione da poco concluse: una sola serata, una sola esecuzione pubblica, davanti a una sala pienissima e partecipe.

Fin dalle prime battute, con quell’avvio morbidissimo degli archi, si percepiva tutto il lavoro fatto dal direttore con l’orchestra. Un’impressione che ha trovato via via larghe conferme lungo tutto l’arco della serata: il senso arcano della scena del tempio, il brio delle danze, l’insinuante doppiezza del duetto Aida-Amneris, la magniloquenza del trionfo, le sonorità ovattate e misteriose del duetto del Nilo, la tensione cupa nella scena del giudizio. L’orchestra ha risposto in modo superlativo, in termini di nitore e compattezza di suono, di flessibilità e duttilità di fraseggio. Una direzione tesa, serrata, accesa, potente, scandita nel ritmo, ma nello stesso tempo attenta a colori, sfumature, contrasti. Arcate di suono opulente, ma anche accompagnamenti screziati, condotti con una gamma dinamica tra le più ampie. È un’Aida incentrata sul triangolo amoroso, ma che non rinuncia a collocare i protagonisti in un contesto onnipresente, che li opprime e li schiaccia: la fusione dei due elementi è stato l’apice del virtuosismo di Pappano. Le prime parti dell’orchestra, poi, si sono rivelate di un’importanza essenziale per sostenere questa prospettiva: sentire, ad esempio, il clarinetto di Alessandro Carbonare, l’oboe di Paolo Pollastri, il flauto di Andrea Oliva (solo per citare alcuni maestri) entrare in dialogo con le voci creava un’atmosfera del tutto singolare. Si aggiunga il forte risalto dato agli interventi del coro, che ha cantato magnificamente.

Quanto ai solisti, le sorprese maggiori le ha riservate Jonas Kaufmann, fin dall’inizio, con una esecuzione splendida di Celeste Aida, tutta sospesa sul filo di rasoio del chiaroscuro, con una raffica di piani ben sostenuti e conclusa con una audace smorzatura in pianissimo. Il tutto con il supporto di un concertatore disponibile ad abbandonarsi al canto. Un ritratto sfaccettato, dove ha contato molto anche l’altro volto del guerriero, specialmente nel terzo atto, culminando in un quarto atto finemente giocato sui toni della malinconia, della rassegnazione, del rimpianto.

Il risultato sarebbe stato ancora più appagante se, accanto a lui, avessimo avuto una protagonista altrettanto sicura. Anja Harteros, invece, fa benissimo a non costruire la sua Aida sui massi di granito e a insistere su un canto il più possibile interiorizzato. Ma quando la voce deve salire, necessitando di una colonna di suono salda e omogenea fino agli acuti, incominciano i problemi. Perciò una chiusa dei Cieli azzurri francamente non all’altezza, qualche acuto fisso e non ben intonato anche nel successivo duetto, e una chiusa dell’opera dove i piani non erano tutti perfettamente proiettati.

Quanto al resto del cast, Ludovic Tézier ha inteso conferire più nobiltà del consueto ad Amonasro. Ekaterina Semenchuk, viceversa, ha mirato spavalda a un modello di Amneris molto diretto e passionale, a senso unico, procedendo diritta verso la meta senza tante deviazioni e cedimenti, paga di esibire un materiale notevole, e con qualche nota bassa gutturale di troppo. Spaesato Erwin Schrott nella parte di Ramfis, sia per il legato non ineccepibile sia per l‘accento ordinario.