di Stefano Ceccarelli
Dopo sette anni, il capolavoro di Gaetano Donizetti, emblema del belcanto e dell’appassionata opera romantica italiana, la Lucia di Lammermoor, torna a calcare il palcoscenico del Teatro Costanzi. Lo spettacolo va in scena in un momento di contristato lutto per il teatro (musicale e non) italiano: la morte del suo celebre regista Luca Ronconi, vero geniale drammaturgo. Regia, scene e costumi sono stati ripresi dagli assistenti di Ronconi, Mantovanini, Mayer, Palli e Tessitore, attenutisi strettamente alle indicazioni del maestro. La direzione di Roberto Abbado è raffinatissima e il cast è all’altezza, con Jessica Pratt che domina incontrastata la scena, da autentica diva.
ROMA, 8 aprile 2015 – Non omnis morietur. È Orazio che mi suggerisce − con un lieve aggiustamento − le parole che meglio si adattano, ora, a Luca Ronconi. Se è morto il suo corpo fisico, non lo è − né, speriamo, lo sarà mai − la sua arte, quella da ‘mago della visione musicale’ (G. Capitta). Proprio alla sua memoria non può che essere dedicata questa Lucia di Lammermoor, la sua ultima regia firmata, il postumo lascito al teatro.
Proprio per questo, vorrei incominciare col parlare proprio della mise en scène. La prima Lucia di Ronconi. Non mi viene in mente altro aggettivo volto a qualificare l’operato registico (e pure scenografico) di Ronconi se non poliedrico. Questa Lucia è certamente il tardo portato di questo suo genio poliedrico, sfaccettato; ma, come accade anche ai migliori, ai sommi, capita che gli ultimi lavori non siano, ipso facto, i loro capolavori. La bulimica ricerca di novità (di novità, sovente, ‘strane, mostruose’ come suggerirebbe l’originario valore di novus latino) che sclerotizza le contemporanee regie teatrali e liriche, è una patologia del teatro contemporaneo oramai giunta a livelli insostenibili, endemici. È forse giunto il momento − forse pecco di vichianesimo… − di ritornare a un più sobrio neoclassicismo? Di riconsiderare la contemporanea mise en scène non come un percorso sfociante stentoreamente nel ‘nuovo per forza’, ma come l’effettiva valorizzazione di una tradizione che − per sua definizione − è qualcosa di lontano da noi e spesso non necessariamente ammodernabile? Proprio grazie alle sue storiche creazioni, Ronconi diede una risposta orientata − come prudenza e buon gusto suggeriscono − all’aurea mediocritas. E lo fece quando seppe coniugare ‘il bello in sé’ con una visione plasticamente modernista, ardita, audace nelle prospettive, nel gusto, con perfetta padronanza di una sublime arte scenotecnica: mi vengono in mente molte sue produzioni rossiniane (le due versioni del Moïse e gli spettacoli al Rossini Opera Festival), il suo Démophon o le ardite architetture del suo DerRing des Nibelungen. Ma in questa Lucia di Lammermoor il sacrificio del ‘bello in sé’ in nome di un claustrofobico «universo concentrazionario», un’«istituzione totale» che desse l’idea di un manicomio-fortezza, mi sembra troppo pendente verso il ‘nuovo per forza’. Beninteso: a livello puramente astratto sono quasi attratto dall’idea di base di Ronconi, certamente affascinante; ma la sua realizzazione scenica toglie molto alla magia di un’opera come Lucia. Le ambientazioni interamente e asetticamente bianche, l’insistenza su scale ferrigne e scarne, su luci al neon, su celle incolonnate a vista, l’endemico bianco-nero attenuato, solo in alcuni frangenti, da un gioco di luci più elaborato, concorrono certamente a evocare un universo che imprime agli occhi un senso estetico volutamente anticlassico, visivamente scarno, marcatamente disorientante. Come pure la scelta di lasciare i movimenti delle apparecchiature sceniche a vista, senza il filtro del sipario: si tratta forse di un’imposta volontà di catapultare il pubblico in quella claustrofobia? Il tutto è anche, anzi soprattutto cronologicamente disorientante. Della cinquecentesca Scozia non si ha traccia; i costumi sono spostati all’epoca in cui Donizetti compose la Lucia; qualche anno dopo, naturalmente, che Walter Scott ebbe scritto e pubblicato il suo The bride of Lammermoor (se ne può forse riconoscere una sbiadita eco nella mise dei soldati). L’opera è, quindi, inesorabilmente ‘de-romanticizzata’: tutto si sposta sulla follia di Lucia, che fagocita, come elemento ipertrofico, tutto l’universo dei personaggi della storia, quasi non ci fosse un prima e un dopo alla follia − Lucia è da subito folle, una reclusa, regina di un mondo di folli (o di visioni da lei stessa generate?). Una scenografia, insomma, esangue; e la regia non brilla per coupe de théâtre. Il tableau più gradevole risulta la scena della fontana (I. 4), dove la Pratt gioca timidamente sfiorando l’acqua di una piscina, in realtà quasi un lavatoio per animali: la bellezza lievemente romantica della scena è data da un fascio di luce che proietta l’ondulato movimento dell’acqua sul bianco fondale. Le scene corali sono assai particolari e pullulano di elementi diversi: sia la scena della stipula delle nozze (II, 4), che quella delle celebrazioni post-nuziali (III. 3) sono le più particolari, presentando una serie di invitati relegati in celle di manicomio su due grandi pilastri e altri in fogge antiche che sfilano per la sala. I costumi sono di buona fattura e tendenti tutti a colori cupamente scuri, cui fa da ovvio pendant il fondale bianco: unica logica eccezione, l’abito bianco che Lucia indossa alle nozze e con cui ucciderà Arturo. La recitazione dei cantanti e del coro è alquanto statica: in particolare, troppo borghesi gli atteggiamenti di Enrico e Edgardo. Fanno eccezione il Raimondo di Cigni, ieratico e posato, e soprattutto la Lucia della Pratt, che vive ogni istante del progressivo dolore della protagonista. La realizzazione del progetto di Ronconi si deve ai suoi assistenti: ha curato la regia Ugo Tessitore, le scene Margherita Palli, i costumi Gabriele Mayer e le luci Gianni Mantovanini.
Se la messinscena non ha convinto appieno, d’indiscutibile qualità è la parte musicale. A cominciare dall’ottima direzione di Roberto Abbado, direttore saldo e di riferimento per il repertorio squisitamente belcantistico. L’accompagnamento alle voci è eccellente; l’uso dell’orchestra idem. Orchestra che non manca di regalarci ottimi momenti, come il delicatissimo preludio dell’arpa («con suoni liliali e sognanti», come scrisse Rodolfo Celletti) che precede la cavatina di Lucia; o il violento temporale che dà inizio all’atto III, per notare un momento dall’ethos totalmente differente. Abbado si serve dell’edizione critica Ricordi a cura di Roger Parker e Gabriele Dotto, che ripristina tonalità e aspetti originali della partitura; ma sceglie − forse per compiacimento del pubblico? Dei cantanti? − di lasciare che si interpolino diversi acuti. Enrico Ashton è cantato da Marco Caria, baritono emergente dal promettente talento vocale. Parte un po’ in sordina, ma nella sua cavatina («Cruda, funesta smania») si fa apprezzare. Non possiede un timbro caldo e nobile; e, proprio per questo, ci riserva un Enrico lontano dall’immagine vocale classica, indelebilmente impressa nelle nostre menti, di una voce morbida e calda come quelle di Cappuccili, Milnes e Bruson, offrendocene uno più graffiante, granuloso, se si vuole più giovanile. Ha buoni acuti: ma perché interpolarne tanti? Mantiene un decoroso livello per tutto il corso dell’opera, toccando la sua acme nel duetto con Lucia (II atto) e in quello con Edgardo (III). Stefano Secco canta un buon Edgardo. Se si sorvola su un vibrato troppo stretto, sulla copertura di alcuni passaggi e sull’indietreggiamento di alcuni acuti, tecnicamente la prestazione è stata ottima. I momenti migliori: il duetto d’amore con Lucia (I atto), con un attacco veemente e passionale («Sulla tomba che rinserra»), e l’aria finale, «Tombe degli avi miei», estremamente sentita. Notevole il Raimondo di Carlo Cigni: la sua voce melliflua, acquosa, scorre con garbo nelle arcate ieratiche della tessitura del personaggio, con un nòcciolo argentino e chiaro che la renderebbe adatta anche a ruoli baritonali. Brilla particolarmente nel registro di mezzo e acuto, ma decisamente meno nel grave. La dolcezza con cui canta la sua prima aria (II. 3), «Ah! Cedi, cedi, o più sciagure», rende il momento indimenticabile; come pure nel Larghetto della Gran Scena (III. 4) dove racconta il folle delitto perpetrato da Lucia («Dalle stanze ove Lucia»). Buono anche l’Arturo di Alessandro Liberatore, frizzante nella sua brevissima cavatina («Per poco fra le tenebre»); discreta l’Alisa di Simge Büyükedes − un po’ forzato l’intendere il personaggio come una suora intenta al solo sorvegliare Lucia. Se Andrea Giovannini parte cantando il Normanno sotto tono, si riprende già dopo il primo coro, palesando voce chiara e incisiva e ottima recitazione. Anche il coro fa bene il suo mestiere. Quello maschile si fa apprezzare per la baldanza del primo ingresso («Percorriamo le spiagge vicine») e per gli struggenti piano con cui intervalla il canto di morte di Edgardo («Fûr le nozze a lei funeste»), esaltati da un particolare indugio di Abbado; il coro femminile esalta il giubilo delle scene nuziali all’interno del castello.
Ho volutamente lasciato il giudizio sulla Lucia di Jessica Pratt per ultimo, a conclusione. È veramente raro, oggi, imbattersi in un cantante che abbia piena consapevolezza interpretativa e estetica della parte che si accinge a cantare. Ebbene: tutte le volte che ho avuto il piacere di ascoltare la Pratt in teatro, ho sempre pensato che quella consapevolezza la possedesse appieno. Cantare Lucia come fa oggi lei è più unico che raro: tanto che non temo di definire storica la sua Lucia. La suadente, aggraziata voce della Pratt si piega a ogni esigenza del canto: timbro flautato, intonazione da pianoforte appena accordato. Ma a questa solidissima base tecnica, l’anglo-australiana coniuga un gusto e una competenza storico-filologica del canto che posseggono, al mondo, in pochissimi. Fin dal suo ingresso, nella sua cavatina «Regnava nel silenzio», assistiamo a un prodigio: un canto stabile sul piano che si sente perfettamente sopra lo spettrale velo orchestrale, rispettosissimo del variare delle intensità, che tecnicamente vola su portamenti, melismi e ornamentazioni (come i trilli ascendenti in semitono e l’ampio portamento-cadenza). Non termina mai in acuto, ma eventualmente interpola l’acuto sulla nota precedente, come d’uso all’epoca di Donizetti. Nel duetto con Edgardo è delicatissima, elegiaca tanto nel larghetto cantabile, quanto nella ristagnante cabaletta (moderato assai) − con quale gusto e dolcezza trapassa dal tempo di mezzo alla cabaletta. Nel successivo duetto con Enrico descrive una Lucia che inizia il suo percorso che la porterà alla follia. Ma è nel finale II dove ci regala uno dei momenti di maggior teatralità, quando con periclitante trepidazione canta quel passaggio digradante sul verso «io gelo ed ardo»; il successivo larghetto (peggio noto come ‘sestetto’) è magistralmente diretto da Abbado e intensamente interpretato da tutti i cantanti: qui la Pratt ci regala quelle straordinarie messe di voce che attestano anche il carattere esplosivo della sua voce. Questa somma performance è degnamente suggellata dalla celeberrima scena della follia (II. 5), restituita alla sua facies sonora originale mediante l’uso della glassharmonica al posto dell’ormai consueto flauto. Il risultato è stupefacente: la voce della Pratt si sposa perfettamente con l’atmosfera spettralmente illusoria creata dall’evanescente sonorità dello strumento, e l’attacco de «il dolce suono / mi colpì di sua voce!» è pregno di pathos. I franti melismi di questo arioso iniziale sfociano nell’allucinazione del cantabile «Ardon gli incensi»; e la Pratt recita con un’intensità spaventosa, alternando momenti di singulti a nevrotici tic. Il cantabile è chiuso dalla cadenza tra soprano e glassharmonica, uno dei momenti di più alto teatro dell’intero melodramma: la Pratt porta una sua cadenza dall’impatto emotivo travolgente, cantata con una precisione intonativa pazzesca. Festanti applausi e ovazioni la ricompensano. La successiva cabaletta, «Spargi d’amaro pianto», è un tripudio del più autentico belcanto: «gorgheggi in alta tessitura, volate e volatine, trilli, note ribattute, picchiettati» (R. Celletti). Calato il sipario, i cantanti vengono applauditi calorosamente all’inchino e la serata si conferma alfine riuscitissima.</p>
Foto Yasuko Kageyama