Angelina, profeta in patria

 di Francesco Bertini

La rodigina Marina De Liso ottiene un successo travolgente con il suo fulgido debutto nel ruolo protagonistico. In un momento di svolta della sua carriera, nata e sviluppatesi nel barocco, il contralto dimostra personalità e un approccio rossiniano di tutto rispetto.

ROVIGO, 18 aprile 2015 - Com’era avvenuto qualche tempo fa a Treviso e Ferrara, anche il teatro di tradizione di Rovigo propone La Cenerentola di Gioachino Rossini, in coda alla 199a stagione lirica. La coproduzione, con l’Opera Giocosa di Savona, riporta in Veneto un titolo programmato troppo di rado e spesso assente dalle grandi fondazioni. Similmente al Barbiere, inscenato al Teatro Verdi di Padova alcuni mesi or sono, il regista e costumista Francesco Esposito idea uno spettacolo frizzante ma non sempre fluido. Le scene di Mauro Tinti sono strutturate su una pedana circolare inclinata dalla quale si dipana una passerella aggettante oltre la buca, verso la platea. Con il supporto delle luci di Alessandro Canali, che proietta al suolo gli elementi principali delle diverse ambientazioni, prende vita il perfetto congegno rossiniano. Sovrastati dall’incombente figura di Alidoro, deus ex machina dell’intera vicenda, i personaggi vengono rivisitati in chiave contemporanea: le sorellastre sono due giovinastre che leggono riviste scandalistiche e usano lo smartphone, Don Magnificoè un babbo giovanile e dandy gabbato da un Dandini mascherato da magnate e da un Ramiro dall’aspetto arabeggiante. La protagonista è la sola a beneficiare di una vera e propria maturazione durante l’opera: all’inizio i panni sono quelli dimessi, con tanto di ciabatte sanitarie, della “covacenere” ma l’evoluzione in cigno, già intercorsa durante la festa a palazzo, è definitiva dopo la scoperta dello smaniglio (sostituto rossiniano della scarpetta). Esposito si lascia prendere la mano cadendo, qui e là, negli stereotipi spesso abbinati ai melodrammi giocosi. A fronte di talune intuizioni felici, tra le quali si collocano i divertenti costumi, vi sono ridondanze che risultano fuorvianti. La compagnia annunciata in locandina è completamente mutata, eccezion fatta per il ruolo di Tisbe.

Ad interpretare Angelina è la rodigina Marina De Liso [leggi l'intervista]. L’artista torna nella propria città per debuttare il ruolo rossiniano, in un momento di svolta nella carriera, finora particolarmente concentrata sul repertorio barocco. Il risultato è fulgido: fin dal principio si apprezza la musicalità, cui si affiancano il fraseggio limpido, il giusto approccio alla scrittura del pesarese, l’idea individuale e ben delineata del personaggio. La De Liso non è una Cenerentola remissiva, perdente, vinta ma, al contrario, convinta, pur nei soprusi, della propria personalità e del proprio riscatto. Il successo è giustamente travolgente, con numerose chiamate al termine e un omaggio floreale per la celebre concittadina.

A fare da contraltare alla bontà della sventurata serva, vi sono gli acidi familiari.

Clorinda e Tisbe godono della spigliata e divertente prestazione rispettivamente di Linda Campanella e Paola Pittaluga. La prima ha modo di risaltare le ferrate doti melismatiche grazie all’esecuzione, rarissima e solitamente vincolata a festival specifici, dell’aria "Sventurata! Mi credea" composta da Luca Agolini per la prima rappresentazione. La seconda punta la propria prestazione sulla disinvoltura scenica e l’innata vis comica. Don Magnifico, antagonista che pur nei tratti grotteschi e comici suscita la disapprovazione per i maltrattamenti perpetrati all’eroina, è un camaleontico Domenico Colaianni. Il basso pugliese risulta interprete ideale della sardonica loquela del buffo padre. Tanto vengono valorizzati i recitativi quanto le difficoltose parti sillabate che il cantante risolve imponendo una propria convincente lettura. I “buoni”, Dandini e Don Ramiro, sono affidati a Enrico Maria Marabelli e Filippo Adami. Marabelli dipana abilmente l’intricata matassa del servitore scaltro e all’uopo capace di reggere le fila alla mascherata. Il baritono denota qualche lieve difficoltà in zona acuta, tuttavia la linea di canto è sostanzialmente precisa e la resa attoriale disinvolta ma mai eccessiva. Pure Adami ha alcune tensioni nelle note estreme che non compromettono una prova convincente per luminosità del timbro, fraseggio ben strutturato e calibrati accenti. Il giovane Rocco Cavalluzzi si confronta con il ruolo di Alidoro. Tanto gli interventi iniziali, durante la prima scena dell’atto primo, quanto le apparizioni nell’atto secondo manifestano un colore vocale adamantino nel registro centro-grave. È tuttavia la temibile aria "Là del ciel nell'arcano profondo" a mettere in evidenza, nella tessitura acuta, alcune spoggiature che affievoliscono il volume e sbiancano l’emissione. Il materiale, coltivato e direzionato con accortezza, è di prim’ordine e ideale per affrontare un ampio repertorio.

Il Coro Lirico “Pietro Mascagni” di Savona, istruito da Gianluca Ascheri, agisce con grande coinvolgimento scenico benché la coesione appaia stentata in più di un’occasione. L’Orchestra sinfonica di Sanremo, a tratti problematica, è guidata da Giovanni Di Stefano. Il compito del concertatore è reso più arduo dalla posizione, antistante alla buca, che gli artisti sono obbligati sovente ad assumere. Il concertato del finale primo appare a tratti incontrollato, anche per la scelta di tempi serrati. L’accompagnamento si apprezza in particolare durante le arie e i duetti che vengono sostenuti con cura e efficacia d’idee.

Applausi festanti al termine e entusiastici apprezzamenti per tutti, con particolare evidenza in direzione della protagonista.