Salvati dalla musica

 di Valentina Anzani

Un Fidelio appassionato guidato dalla saggia bacchetta di Zubin Mehta; finalmente, alla terza recita, l’opera inaugurale del Maggio Musicale Fiorentino gode della revoca degli scioperi.

Firenze, 3 maggio 2015 – Rientrato dagli scioperi, il personale tecnico del teatro Maggio Musicale Fiorentino ha ripreso i propri posti solo domenica 3 maggio, per permettere finalmente (alla terza recita!) che il Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze vedesse una Prima, ovvero che il Fidelio non fosse eseguito nella sola forma semiscenica di cui ci si era dovuti accontentare nelle prime due recite per mancanza degli addetti a scenografie, luci, trucco e costumi.

(Sulla legittimità o meno di una protesta che – se certo può raggiungere alla perfezione il fine di far vedere il male che può causare l’assenza delle maestranze di un teatro – certo va a danneggiare proprio il pubblico fruitore grazie all’interesse del quale si continuano a promuovere stagioni operistiche prestigiose, si è già pronunciato Giuseppe Guggino su questa rivista e si rimanda al suo acuto articolo per un esaustivo approfondimento).

Se la presenza di questo allestimento (firmato in toto da Pier'Alli) abbia dato un valore aggiunto alla validità della produzione fiorentina è però tutto da vedere: spazi ampi e vuoti con pochi elementi e un limitato lavorìo di luci a creare un colore ambientale cupo sono gli unici prodotti di una regia quasi innocua, che ha raggiunto una sola punta emotiva nel momento in cui tratteggiava, grazie a proiezioni video che ricostruivano prospettive estreme, la cella profondissima e impenetrabile dove è rinchiuso un Florestan in preda a visioni allucinate.

D’altro canto il Fidelio è un’opera la cui forza espressiva risiede più nella musica che nel vero e proprio decorso drammaturgico, di per sè austero e pregno di retorica volta all’edificazione morale. La trama vede una moglie fedele (Leonore, nei panni maschili di un aiuto carceriere chiamato Fidelio) tentare tutto per liberare il marito Florestan, ingiustamente incarcerato per ragioni politiche dal crudele Pizarro: è una rappresentazione allegorica della lotta della giustizia contro l’abiezione, per la resa della quale Beethoven era stato disposto a rinnegare le convenzioni del genere “opera” per piegarlo alle necessità di espressione di un messaggio etico. In tale contesto è agli esecutori, più che all’allestimento registico, che è demandato – scioperi o meno – il compito di far vivere il Fidelio.

Il cartellone prevedeva interpreti dalla vocalità spiegata e distesa, tra cui si annoverava Ausrine Studyte, che nei panni di Leonore ha compensato qualche scivolata e qualche sfuocatura negli acuti con una presenza scenica appropriatissima e calzante; se gli altri cantanti si sono dimostrati tanto competenti e preparati da non rendere deludente la propria interpretazione, questa non è stata però nemmeno superlativa. Nè il Florestan di Burkhard Fritz nè il Pizarro di Evgeny Nikitin hanno entusiasmato particolarmente per qualità d’emissione o volume. Il primo ha lasciato un vuoto soprattutto nella sua aria del second’atto: Florestan infatti, protagonista maschile della vicenda, è evocato per tutto l’atto iniziale, ma lo vediamo comparire e ne sentiamo la voce solo nel secondo. L’autore, per compensare al silenzio forzato del protagonista, lo risarcisce di una grande aria che lo dovrebbe immediatamente porre al livello di Leonore, aria che Burkhard Fritz non è riuscito però ad affrontare con il giusto carisma. Il risultato è stato un Florestan di livello inferiore rispetto, ad esempio, al carceriere Rocco (Manfred Hemm), il quale, quasi sempre in scena, ha dimostrato voce potente e declamazione incisiva. Anna Virovlansky era una Marzelline dalle tinte soubrettistiche che ben si sposava nei pezzi d’assieme con il timbro scuro della Stundyte e con quello di Karl Michael Ebner, Jaquino goffo e comico come dovevasi.

Il massimo plauso va a Zubin Mehta, che ha mantenuto la concertazione su tempi lenti e non si è lasciato sedurre dalle possibilità di eccedere in sfoghi in fortissimo che la partitura – e la tradizione esecutiva – certo offrirebbero, per prediligere invece un’attenzione superiore a quest’opera dal sinfonismo dichiarato e dall’orchestrazione massiva. Non si è fatto mancare fiati brillanti, archi compatti dagli ampi respiri, percussioni sempre presenti ma mai invasive. Meraviglioso il quartetto del primo atto, in cui i timbri orchestrali erano in perfetto accordo con la caratterizzazione vocale dei diversi stati d’animo rappresentati, impresa complessa tanto più che la composizione è strutturata a canone e che dunque le voci condividono e si scambiano un’unica melodia.

L’allestimento si è servito anche dell’apprezzata ancorché antidrammaturgica pratica di interporre una delle ouverture (la Leonore III) composte e scartate da Beethoven nelle numerose revisioni dell’opera. L’espediente lascia il tempo di fare un cambio di scenografia e – se vogliamo – di riassumere idealmente temi melodici e tensioni interne dell’opera: la lunga e complessa ouverture era stata infatti scartata dal compositore stesso perché musica molto più adatta a un concerto sinfonico che ad aprire un’opera. Sotto la bacchetta di Mehta è stata certo uno uno squarcio alla continuità drammatica che ha però entusiasmato per raffinatezze espressive.

Il grandioso finale con il coro ha coronato un’esecuzione che, grazie al concorso di voci decorose e alla concertazione fine e appropriata di Mehta ha fatto onore al grande capolavoro beethoveniano.

Foto © Simone Donati / Terraproject / Contrasto