Gioco di bambini

 di Roberta Pedrotti

Chiave di lettura giocosa per un Flauto magico che ci proietta all'interno di un teatrino manovrato da due bambini. Se l'idea di partenza è buona e non mancano suggestioni, lo sviluppo con l'ausilio di proiezioni in 3D, però, non spicca il volo. Michele Mariotti sul podio, con discrezione, lavora di cesello sulla poetica della fiaba guidando un cast complessivamente omogeneo.

BOLOGNA 17 maggio 2015 - Un ritorno all'infanzia, una fiaba fantastica allestito in un teatrino giocattolo, immerso nella natura di un piccolo giardino segreto e incantato, angolo riservato alle fantasie dei bambini: questa è Die Zauberflöte secondo la rilettura registica di Fanny & Alexander (nelle persone di Luigi De Angelis, regista, Laura Lagani, drammaturga e costumista, Nicola Fagnani, curatore di scene e luci con De Angelis, con la collaborazione del collettivo Zapruderfilmmakersgroup). Nulla di più, e va anche bene così, perché questa fiaba bizzarra e un po' contorta può farsi metafora particolare o universale ed essere interpretata secondo innumerevoli chiavi di lettura, ma, appunto, rimanere anche puro, incantato piacere di un racconto favoloso, in cui lo sguardo pascoliano del fanciullino spazia libero in un mondo magico e segreto.

La prospettiva infantile, ma non puerile, può schiudere le fragranze di una madeleine e alcune immagini colgono nel segno, quando per esempio Tamino, marionetta di questo domestico puppenspiel, intona "Dies Bildnis" sotto gli occhi sognanti della bambina (Emma Minzi) che, con il fratello (Alfonso Cafaro), appare nei video, allestisce e guida lo spettacolo: gioca e s'immedesima nella principessa protagonista, gioca e fantastica sull'amore a prima vista di un bel principe. Oppure, la sfilata di animali giocattolo che compaiono durante la scena delle fiere domate dal flauto, così simile agli eterogenei serragli assemblati con bestie d'origine, materiali e proporzioni differenti a popolare presepi, mondi di bambole, soldatini, costruzioni. O, ancora, quelle immagini sfocate dai margini blu (o verdi) e rossi che, con appositi occhialini, vedevamo staccarsi dalla carta in tanti album o gadget ispirati alle cicliche mode del cinema tridimensionale, la cui tecnologia è nata e ha cominciato a evolversi praticamente dagli albori stessi della settima arte.

Scene dipinte, quinte, praticabili, scene tridimensionali sempre più concrete (con il fondamentale punto di svolta degli spettacoli dell'Arena di Verona nel 1913), proiezioni sempre più sofisticate. Se il cinema, confinato nelle due dimensioni dello schermo, ha cercato di uscirne conquistando e potenziando la terza, naturalmente propria dello spettacolo dal vivo, era inevitabile che anche l'elemento bidimensionale della scenografia teatrale videoproiettata attingesse a queste tecniche e cominciasse a muoversi oltre le superfici dove si posa. A quanto ci risulta questo potrebbe essere il primo caso, quantomeno italiano, ma a giorni andrà in scena a Firenze un Turn of the Screw che già adotta il medesimo sistema: proiezioni in 3D e pubblico dotato di occhialini per apprezzarne gli effetti. Certo, probabilmente per problemi pratici ed economici, la tecnologia non sembra delle più sofisticate e ci ricorda, appunto, le figurine a tre dimensioni dell'infanzia, con un effetto amarcord che, però, si esaurisce presto e non viene compensato dalla forza di un'idea. Nelle tre ore dello spettacolo il continuo mettere e togliere le lenti colorate, alla fine, stanca e distrae, anche perché i momenti veramente azzeccati e interessanti si contano comodamente sulle dita di una mano, quando, cioè, creano anche spazi veri e propri, non solo fondali dotati di profondità. Allora il teatrino giocattolo, con le sue quinte e figurine bidimensionali e inanimate, attraverso la fantasia dei bambini e il potere della musica conquista una nuova dimensione. Anche le quinte e il fondale ricordano un diaframma fotografico che compone e scompone continuamente geometrie triangolari (quindi allusive della simbologia, non solo massonica, legata al numero tre e ricorrente nel testo) sono ben pensate, ma, in tutto lo spettacolo, manca poi lo sviluppo, sia nel concetto sia nella tecnica. È, difatti, plausibile, trattare i personaggi e le situazioni come archetipi fiabeschi senza ricercare particolari approfondimenti, ma bisogna essere in grado di garantire alla messa in scena tenuta e tensione, anche nell'estetica della pura fantasmagoria. Le indicazioni attoriali paiono assai generiche, lasciate all'iniziativa individuale; l'effetto alla fine stanca, arriva ad essere in troppi casi un'esibizione fine a se stessa di fogliame mosso dal vento. Un esperimento, dunque, riuscito a metà: la tecnologia potrà raffinarsi, certo, ma comunque sia dovrà sempre essere supportata da un'idea forte e soprattutto più sviluppata e articolata nell'arco delle tre ore dello spettacolo.

Così, infatti, nel continuo alzare e abbassare le lentine colorate per veder scorrere calle, ficus e verzure varie, rischia di disperdersi anche il lavoro di Michele Mariotti, che invece cerca e trova colori orchestrali ben più variegati all'interno di una serena, ponderata e saggia levità fiabesca. Si sente uno studio accurato di timbri e sonorità, ma anche di dettagli metrici, per dar sostanza musicale alle funzioni archetipiche individuate da Propp, alla dimensione magica, al fremito amoroso in tutte le sue declinazioni, allo stupore, alla tenerezza… Si gioca, insomma, tutto sul piano musicale lo sviluppo di quell'idea di favolosa scoperta infantile del mondo attraverso la dimensione fantastica.

Peccato che, mancando visivamente allo spettacolo quella scintilla in più e ripiegandosi, man mano, su se stesso, anche la concertazione non si possa trovare valorizzata in una perfetta alchimia di reciproci stimoli. La comunione d'intenti e presupposti è ovvia, ma si procede con passo differente: la partenza è di buona lena e di comune accordo, poi il teatro comincia ad accusare stanchezza e a farsi trascinare, talora a mo' di zavorra, dalla musica.

Omogenea la compagnia di canto, che riunisce sulla carta nomi che suscitano legittime speranze o che rassicurano per la consolidata frequentazione di questo repertorio. Incuriosiva Mika Kares, basso finlandese che molto ci era piaciuto come Daland nel Fliegende Holländer a Bologna e Massimiliano Moor nei Masnadieri a Parma; quale Sarastro conferma l'elegante pasta vocale e dimostra di non temere l'ostica tessitura, anche se "In diesen heil'gen Hallen" (qui mutato in Mauern, non unica variante rispetto al testo consueto) è ancora una volta trappola musicale insidiosa per l'intonazione. Già esperta del ruolo della Regina della Notte, Christina Poulitsi delude le aspettative, non tanto per i sovracuti, quanto per le difficoltà del legato e una certa disomogeneità, soprattutto a causa della presenza di aria nella voce intorno al passaggio superiore. Giovane sempre più affermato nel repertorio lirico e lirico leggero, Paolo Fanale ha il materiale giusto per Tamino, anche se il ruolo è così complesso ed esigente, spaziando dal legato elegiaco a una declamazione elevata ed eroica (Gluck non è lontano, ma nemmeno la nascita dell'opera romantica tedesca), da imporre una maturazione tecnica e artistica che è ancora in divenire, sia per la perfetta posizione di tutti gli attacchi, sia per la più rifinita tornitura musicale. Le premesse sono comunque incoraggianti.

Rassicura la pratica mozartiana di Nicola Ulivieri, Papageno schietto e umano, giocato più sulla sottrazione che sull'estroversione. Rassicura la finezza stilistica di Maria Grazia Schiavo, benché la sua Pamina non raggiunga le vette poetiche ammirate a Torino lo scorso anno [leggi la recensione]. Rassicura l'esperienza da caratterista di Gianluca Floris come Monostatos, così come fanno il loro dovere la Papagena di Anna Corvino, l'Oratore di Andrea Patucelli con Cristiano Olivieri, Luca Gallo e Carlo Alberto Brunelli fra gli armigeri e i sacerdoti, le tre dame di Diletta Rizzo Marin, Diana Mian e Bettina Ranch. Marco Conti, Pietro Bolognini, Susanna Boninsegni, i tre fanciulli, provengono dal coro di voci bianche del Comunale preparato da Alhambra Superchi, così come tutti i giovanissimi – e bravissimi – attori e figuranti impegnati anche come sacerdoti e schiavi. Spesso impegnato in platea, con esiti teatralmente innocui rispetto all'inevitabile sbilanciamento acustico, il coro, anch'esso in buona forma, preparato da Andrea Faidutti.

Pubblico variegato e curioso che si scioglie man mano fino a un grande e festoso successo conclusivo e collettivo.

foto Rocco Casaluci