L’Africa nera di Norma

 di Francesco Lora

Debutta alla Fenice un allestimento ove Galli e Romani divengono tribù africana e colonizzatori europei. Nella compagnia di canto rifulge Gregory Kunde, mentre il protagonismo di Carmela Remigio impone la disamina.

VENEZIA, 30 maggio 2015 – A presentare il nuovo allestimento della Norma di Vincenzo Bellini al Teatro La Fenice è, nel programma di sala, la regista, scenografa e costumista in persona: Kara Walker, artista afro-americana nota per le sue esplorazioni sulla razza, il genere, la sessualità e la violenza, non meno che per i suoi tableaux a base di silouettes ritagliate in un piano nero. Si legge ciò che si vede nelle sei recite dal 20 maggio al 6 giugno, e che si vedrà ripreso nella prossima stagione del teatro veneziano: «invece dell’occupazione romana della Gallia nel 50 a.C., siamo nel tardo diciannovesimo secolo in una colonia dell’Africa centrale o occidentale non molto dissimile dal Gabon o dalla Repubblica del Congo, occupata da una potenza europea. È un luogo immaginario lungo il corso del fiume Ogooué ed è popolato da una forte comunità – devota alla religione della natura – capeggiata dall’Anziano, Oroveso, e dalla sua potente figlia, la sacerdotessa Norma. È su di loro che la comunità fa affidamento per rovesciare il dominio coloniale europeo rappresentato dal proconsole Pollione e dal suo attendente Flavio». Superato il primo spaesamento iconografico, la trasposizione spazio-temporale regge, poiché quella concettuale è assai mite; regge molto meno, però, al cospetto di una musica deliberatamente memore dello stile Impero, con gli echeggi pompier e le enfatiche nostalgie tipici di quell’età napoleonica che fondeva in un sol punto l’orgoglio gallico e l’impero romano. E il lavoro con attori e masse, dopo l’enunciazione dell’idea teatrale, fa più affidamento sull’iniziativa dei singoli che su un progetto comune, solido e definito.

Nessun elemento di spicco esegetico viene, a sua volta, dalla concertazione di Gaetano D’Espinosa: orchestra e coro della Fenice le rispondono tra tempi larghi e con suono turgido. E mentre nel citato programma di sala due articoli di Alessandro Roccatagliati ed Emanuele D’Angelo scandagliano con nuovi apporti le implicazioni strutturali e culturali dell’opera, il direttore riconferma le cabalette non ripetute – persino in «(Ah! bello a me ritorna)» – e le code sparutamente spennacchiate di una, due, quattro battute alla volta, per il puro gusto di distaccarsi, in nome di una tradizione frusta, dal testo che l’autore ha licenziato.

L’interesse dello spettacolo consiste così soprattutto in una compagnia di canto ove il valore assoluto si alterna con buoni spunti di discussione. Al vertice si colloca Gregory Kunde come Pollione: il timbro è maschio e inconfondibile anche quando carente di smalto, lo stile è forbito e nel contempo trascinante, la risonanza è tra le più importanti oggi sulla piazza; premesse generiche a meriti più specifici: il fantoccio portato in scena da tanti colleghi diviene qui un carattere compiuto, ossia l’ufficiale coloniale «le cui motivazioni politico-economiche sono andate degenerando in interesse meschino e torvi rimuginamenti» (Walker); e mai si è sentito, negli ultimi cent’anni, un tenore che scateni l’ovazione dopo la sortita di Pollione, a pochi minuti dall’inizio dell’opera e con la platea ancora fredda, centellinando il recitativo con gusto antico e fragranza moderna, incantando con un cantabile qui e là abbellito nella seconda strofa e poi squillando a dismisura nella cabaletta ripetuta e variata con gusto sopraffino. Ecco in Kunde ciò che il podio non dà: un Bellini raggiunto dalla lezione di Rossini anziché dalla corruzione del Verismo.

Il discorso si fa articolato a proposito di Carmela Remigio come Norma, una parte che il soprano tiene peraltro in repertorio già da alcuni anni accanto a quella di Adalgisa. La musicista e la cantante si impongono, e confermano anzi una statura artistica non eguagliata da alcuna coetanea italiana della stessa corda: l’emissione è di alta scuola, il volume ampio e agiato, l’ornamentazione dipanata con tutta la necessaria scaltrezza tecnica; la dizione stessa e lo studio retorico sono eccellenti e non lasciano perdere una sola parola né la sua funzione all’interno della frase. L’interesse di ascoltare la Remigio nel ruolo della primadonna è dunque autentico, e tuttavia si rileva la poca urgenza di vederla impegnata in parti di Donizetti o Bellini piuttosto che di Mozart o Puccini. Questa la ragione: la primadonna dell’Ottocento belcantistico è chiamata a esibirsi nella massima varietà di risorse virtuosistiche ed espressive, passando da un registro vocale all’altro e giocando dunque con le fratture di timbro e lo sfogo degli estremi; con terminologia storicamente inappropriata, il profilo corrisponde a quello del fantomatico soprano drammatico d’agilità, del quale interessa qui rilevare l’accesso al registro di petto e le sciabolate in zona sopracuta, a costo di eventuali asperità timbriche e di un certo anonimato nei centri; grosso modo e con tutte le dovute distinzioni di caso in caso, è questo il profilo che passa dalla Callas e dalla Gencer alla Scotto e alla Theodossiou. Come la Freni, la Ricciarelli, la Dessì e la Frittoli, la Remigio appartiene però alla categoria dirimpettaia dei soprani cosiddetti lirici: timbro di inusitata presenza e personalità ovunque, omogenea continuità di registri lungo tutta la gamma, registro grave da sollecitare solo quando serve, registro acuto radioso ma in sé non motivato a varcare le colonne d’Ercole del Do. Avviene così che la Remigio sacrifichi alcuni suoi vanti a una parte poco consona, senza riceverne un contraccambio: l’unica arcata vocale tende a rompersi forzatamente nel brusco passaggio da un registro all’altro, le note gravi risultano fioche o laboriose o forzate, quelle acute accumulano una tensione fuori dall’ordinario. Il ribaltone obbligato delle risorse vocali non giova alla messa a fuoco del personaggio, nel quale si scopre un’insospettata e forse non ideale freschezza giovanile, e al quale manca per contro la distaccata autorità d’accento della sacerdotessa.

Resoconto più breve a proposito di Roxana Constantinescu, che come Adalgisa raccoglie il testimone da Veronica Simeoni per le ultime tre recite: voce intermedia tra il soprano e il mezzosoprano, con i lievi disagi dell’uno nello scendere e con quelli dell’altro nel salire, di peso però squisitamente lirico e con un timbro che si sposa alla perfezione con quello della Remigio. Patrimonio vocale di sontuoso esotismo nei ricchi armonici e nella ieratica cavata di Dmitry Beloselskiy, un Oroveso del quale andare fieri. Platea vivacissima non tanto negli applausi extrakundiani, quanto nella spudorata fuoriuscita di turistiche e bandite telecamere, con conseguente viavai di zelante, sgridante e ancor più molesto personale di sala.

foto Michele Crosera