Opera panica

 di Stefano Ceccarelli

All’Opera di Roma si danno Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart, nello storico e bellissimo allestimento di Giorgio Strehler. Il risultato è, a dir poco, fenomenale: una delle migliori serate d’opera della mia vita. Concorre a creare la magia la bravura assoluta del direttore, Roland Böer, e dell’ottimo cast.

ROMA, 28 maggio 2015 – Il classico dei classici: un’opera buffa di Mozart, Le nozze di Figaro. Uno di quei titoli per cui il pubblico va – letteralmente – a nozze! E questa volta anche fuor di figura, visto che al titolo si associa un immortale allestimento: quello scaligero del compianto Giorgio Strehler (1981), più volte riesumato e oramai, in senso assoluto, classicizzatosi. Un classico calviniano, un allestimento «che non ha mai finito quel che ha da dire» e che «persiste come rumore di fondo» (I. Calvino, Perché leggere i classici) di tutte le altre successive produzioni di Nozze.

Bisognerebbe maggiormente incoraggiare riprese registiche di questo tipo. La stratificazione delle regie operistiche del XX è oramai incredibile – e, nella congerie impressionante, non v’è certo sempre qualità. Si parla anche di un risparmio notevole in termini di liquidi, in un momento in cui la lirica è strozzata e sull’orlo del baratro economico: ma, ancor di più, si tratta di rieducare il pubblico a un gusto del bello che oggi languisce sempre di più sui palcoscenici del mondo. Tutte queste ottime qualità le assomma la produzione strehleriana. Scenografie stupende firmate nientemeno che dal grande Ezio Frigerio; costumi magnifici di Franca Squarciapino. Le scene, fortemente centrate, basate su una prospettiva centrale, descrivono benissimo l’interno del palazzo di Almaviva: sembrano non finire mai, essere profondissime, illuminate sapientemente da finestre di sinistra, con una luce filtrata di colore caldamente aureo, che rende degnamente l’atmosfera da interno. Stupefacente la decorazione mobiliare: di una fattura talmente perfetta da far impallidire la stragrande maggioranza delle scenografie odierne. Il boudoir della Contessa ne è l’esempio più eloquente: un letto a baldacchino ricchissimo, in perfetto stile neoclassico, lievemente in disordine; un separé, qualche sedia, uno specchio – ogni cosa è un conforto agli occhi. Così pure la soffitta di Susanna e Figaro, che rende, pur nella sua semplicità (con una corda appendiabiti, qualche baule alla rinfusa, una grande sedia in centro), una certa neoclassica compostezza. La sala delle udienze del Conte, invece, con un raffinatissimo clavicembalo sulla sinistra, va a perdersi in una prospettiva giocata sull’alternanza di luci proiettate dalle finestre e ombre. Il giardino dell’atto finale, tutto dipinto con sapiente e antica scenotecnica, è un piacere per gli occhi, poco pretestuoso, ma efficace. I costumi della Squarciapino sono tutti classici, aderenti all’epoca, magnifici per foggia e stile: basti dare uno sguardo a quelli della Contessa o ai soprabiti femminili dalle tinte rosacee che nascondono i furti d’amore nella magica notte del giardino. Una regia che si rispetti deve essere, innanzitutto, coerente e convincente; ma soprattutto deve essere ben sorretta dai cantanti, a cui vanno i più sentiti complimenti per averci regalato una serata indimenticabile. E questa regia di Strehler è particolarmente indimenticabile, a mio avviso per due motivi (oltre che per una serie infinita di altri): l’erotica, carnale sensualità e la perfezione dei tempi. Ogni scena è giusta e non potrebbe essere altrimenti: le risa del pubblico, il piacere di fruirne, ne sono sicuramente la testimonianza più ovvia, ancorché genuina. E il tutto è perfetto giacché partorito da una prospettiva eccellente: quella che pensa alla messinscena di «opere comprensibili, allestite con onestà», che posseggano «la più grande obiettività possibile» (non mi vengono migliori parole di quelle di Strehler stesso). In fin dei conti, tutta l’opera è incardinata sulla sensualità, che è nobiliare e pure paesana: insomma «l’uomo visto in una prospettiva poliedrica» da parte di un «compositore realista» e universale, tal è Mozart. «Una sensualità nella musica, una verità di sentimenti che deve esprimersi con gesti e azioni»: è un piacere vedere i personaggi che interagiscono fisicamente, si palpano, nell’irresistibile vortice dell’eros. Alcuni, anzi, sono puro eros: come Cherubino, o Barbarina. Ma la regia ha anche accenti più impegnanti: magnifica la scelta registica di far picchiare a Figaro la giacca del «Signor Contino», proprio a significare una coscienza di classe ridestantesi, di fervida attualità. Ogni gesto in Strehler acquista senso: il nascondersi di Cherubino, le ironiche e pungenti canzonature di Figaro, le pavide civetterie di Susanna, l’indefessa, gelosa nobiltà della Contessa, l’aura di potere sgretolantesi alla vista di una bellezza terrena del Conte d’Almaviva…e potrei continuare. Cosa dire insomma? La perfezione! Uno dei più belli allestimenti d’opera mai creati, forse il più bello in assoluto delle Nozze. La regia è una macchina accattivante, frizzante, piena di coup de théâtre, scorrevole, avvincente, sublime nell’adattarsi così bene alla “cornucopica” inventiva musicale di Mozart. Indimenticabili i finali: il secondo soprattutto. Come poi non magnificare l’intero atto IV, squisitamente shakespeariano?

La fortuna di questo splendido allestimento, il migliore che l’Opera di Roma abbia finora messo in scena, risiede anche nell’accorta scelta del direttore d’orchestra e del cast dei cantanti. Roland Böer è un autentico talento della direzione mozartiana; e una lode particolare gli va tributata anche perché si è seduto al fortepiano per tutta la serata, dirigendo e accompagnando – come si faceva una volta. Persona intelligente e di squisita cultura musicale (l’ho constatato con piacere durante la conferenza stampa), Böer è particolarmente portato per la direzione mozartiana: lo dimostra un brio connaturato, una spigliata e raffinata lettura della partitura. Ma, soprattutto, è incredibilmente bravo a ingenerare un ritmo dall’agogica fluida, trascinante; non lascia un respiro agli spettatori, ma li incalza nel rapimento dell’incanto mozartiano con un’energia che vivifica la partitura, rendendo pienamente la bellezza del testo e, sovente, aumentando le difficoltà ai cantanti, che le superano con brillante nonchalance – segno evidente della loro bravura. La partitura vive di luci nuove: è un fiume in piena. Böer sceglie, inoltre, lezioni librettistiche anche diverse da quelle tradizionali; permette ornamentazioni, appoggiature, fioriture (quanto ancora si dovrà discutere sulla loro presenza e/o liceità in Mozart?). Crea, di fatto, un precedente: affrontando l’enorme congerie di versioni tradizionali con piglio personalissimo e, a giudicare dalle sue scelte, non di rado giustamente critico, genera un nuovo modello, che si spera alimenti una tradizione interpretativa di qualità, volta all’esaltazione puramente estetica della bellezza vitalistica della musica di Mozart. L’orchestra dell’Opera di Roma, ridotta all’uopo della partitura, suona abbastanza bene: tanto basta per creare un buon impasto che costituisce il nerbo dell’opera. Il cast eccelle tutto: la cartina di tornasole sono le fulgide interpretazioni dei comprimari. Il Conte d’Almaviva è Alessandro Luongo, cantante che ha fatto un incredibile salto di qualità da qualche anno a questa parte, soprattutto a livello vocale, aumentando (e non poco) il volume della sua voce, che ha un vibrato granuloso adattissimo all’aspra e scostante alterigia della vocalità del conte – si pensi ai suoi sbotti d’ira, come «Esci omai, garzon malnato» (II), o l’aria del III «Vedrò mentr’io sospriro» –, che deve, però, essere capace anche di talune languide dolcezze (il duetto con Susanna del III). La Contessa d’Almaviva è la bravissima Eleonora Buratto, che ho già avuto il piacere di lodare altrove. Il suo caldo timbro, spumoso, avvolgente, ci conquide: la tecnica, poi, è eccellente. Riesce in fantastiche messe di voce, in smorzando controllati e urbani, mercé il suo perfetto controllo. Il problema di una parte dai toni essenzialmente elegiaci («Porgi, amor, qualche ristoro», II) e tragici (la virtuosistica «Dove sono i bei momenti», III) è risolto con un misto di candore, risolutezza e sottile ironia – quella della schietta infatuazione per Cherubino. Susanna, un ruolo mostrum (è praticamente quasi sempre in scena!), è cantata dalla talentuosa Rosa Feola, che regge egregiamente per tutto il corso dell’opera. La sua voce candidamente seducente si sposa benissimo con l’ethos di consapevole ingenuità di cui intelligentemente la bella contadina si ammanta: i suoi recitativi sono un brillio. Dal primo duetto con Figaro alla sua tenera serenata del IV canta con la freschezza di una rosa aulente: tutto scorre liscio, suadente. Indimenticabile il duetto con la Contessa, «Canzonetta sull’aria», dove le loro voci si sposano divinamente. Ma l’apoteosi è raggiunta dalla suadentissima serenata (IV), «Deh vieni, non tardar, oh gioia bella», uno dei miracoli musicali di Mozart: la Feola la canta con una grazia impareggiabile, quasi sottovoce, facendoci sognare. Un Figaro virile, da manuale, quello di Markus Werba: la sua voce scura, profondamente brunita, coglie tutti gli accenti accesi e un po’ vanagloriosamente sfrontati del personaggio: «Non più andrai farfallone amoroso» (I atto) e «Aprite un po’ quegl’occhi», ricchissimi di sfumature, giocate sul fiato e sul senso del testo, riescono magnificamente. E così pure il “rivoluzionario” «Se vuol ballare». Delizioso il Cherubino di Michaela Selinger: del resto, come si può cantar male un ruolo così iconico e perfetto? «Non so più cosa son, cosa faccio» e «Voi che sapete» vivono della voce calda della Selinger, che ben spagina le ansie erotiche dell’adolescente Cherubino, sprigionando grande sensualità. Brava Isabel de Paoli in Marcellina, soprattutto nel rendere il cambiamento di prospettiva del personaggio: da amante (che spasso il duetto con Susanna!) a madre. Travolgente, per vocalità, fraseggio e tecnica, è il Don Bartolo di Carlo Lepore: raramente ho sentito cantar così bene «La vendetta, oh la vendetta». Egualmente di classe il Don Basilio di Matteo Falcier, che scrosta il personaggio di tanta piatta, noiosa, bieca comicità, restituendoci un carattere a tutto tondo, soprattutto nella sua aria «In quegl’anni in cui val poco». Buoni il Don Curzio di Saverio Fiore e l’Antonio di Graziano Dallavalle; spumeggiante la Barbarina di Damiana Mizzi. Buona, infine, la performance del coro.

Una vera serata magica. Quando si sono accese le luci in sala (uno dei coup de théâtre della regia strehleriana) nel finale, così da marcare la rottura dell’illusione scenica, ci si è veramente destati dall’incanto della «panica notte che conclude la “folle journée” come accedendo a un sopramondo, a un eden dove l’ironia non è che il risvolto della commozione, e realtà e finzione vólti fungibili della stessa verità». Ben scriveva Fedele D’Amico: aggiungerei che non meno panica è stata anche la serata d’opera.

foto Yasuko Kageyama/ Opera di Roma