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Splendon le sacre faci

 di Emanuele Dominioni

Ritorna nel cartellone scaligero dopo poco più di un anno di assenza, l’allestimento di Lucia di Lammermoor firmato da Mary Zimmermann in coproduzione col Metropolitan di New York. Nella ripresa si segnalano le ottime prove di Diana Damrau e Vittorio Grigolo guidati dalla vibrante bacchetta di Stefano Ranzani.

Leggi la recensione della prima milanese dell'allestimento di Mary Zimmermann

MILANO, 5 giugno 2015 - Ciò che caratterizza maggiormente l’idea registica della Zimmermann è lo spostamento dell’azione a cavallo fra ‘800 e ‘900. Scelta quest’ultima che, nel solco di una tradizione e fedeltà all’azione drammatica espressa dal libretto, si distingue per il carattere americano-borghese del contesto storico, non rinunciando però al gusto romantico, proprio di Walter Scott, che permea la storia. All’apertura del sipario siamo proiettati in un’atmosfera cupa e sinistra in cui il raggio di tetra luce evocato da Lucia nella cavatina,si riflette su un paesaggio brullo e desolato. Perno dell’idea registica della Zimmermann è il voler ricreare quella trappola familiare maschilista in cui Lucia è imprigionata ma sostituendo alla ragion di stato del rinascimento scozzese, una morale borghese fin del siècle del pari oppressiva, ma maggiormente permeata di soffocante perbenismo. Le scene disegnate da Daniel Ostling e i costumi di Mara Blumenfeld delineano perfettamente il consumarsi del dramma storico che si veste di toni borghesi e che non rinuncia però a dinamiche attoriali dai risvolti quasi cinematografici. Da qui la scelta di inserire anche elementi e situazioni che sfiorano il comico, come i movimenti del coro durante il colloquio fra Enrico e Arturo, o vagamente grotteschi, come la scelta di far apparire il fantasma di Lucia nel finale che, sebbene di un certo impatto, risulta in ultima analisi eccessivamente didascalica e manierata. L’impressione generale che scaturisce da questo allestimento è quella di un’idea registica molto caratterizzata soprattutto sul piano visivo e scenico, ma vittima di alcune scelte che ne appannano in parte la credibilità e la caratura drammaturgica. Il voler ricreare un continuum spazio-tempo fra le varie scene attraverso l'alternarsi, per esempio, dei fondali funziona in maniera naturale e armonica quando viene allestita la sala del matrimonio durante la prima aria di Raimondo; meno nell’ultimo atto, in cui l’avanzare della tomba degli avi accanto ad un albero diroccato (con l’enorme luna sullo sfondo), pareva più soluzione diremmo quasi fumettistica che da melodramma.

Una ripresa quindi che premia la bontà di un allestimento comunque rodato e di efficacia visiva, che meritava e ha beneficiato di vitalità musicale e drammatica scaturita dalla vibrante bacchetta di Stefano Ranzani. Il direttore milanese costruisce un accompagnamento incalzante e puntale alle esigenze del canto, non rinunciando a valorizzare i numerosi assoli orchestrali che Donizetti pone in partitura. Molti sono i tagli riaperti e le code ripristinate, i quali, insieme con l’uso della armonica a bicchieri, contribuiscono a ricreare un ascolto interessante anche sotto il profilo filologico. La concertazione, specialmente quella nei numeri di insieme, non sempre è parsa precisa e diversi sono stati gli sbandamenti fra buca e palcoscenico, i quali segnalano più una mancanza di sintonia e prove che di intenti o idee condivise.

Su tutti troneggia e trionfa la Lucia di Diana Damrau. Il personaggio è ormai divenuto cavallo di battaglia del soprano tedesco, la quale ne disegna i contorni in maniera così profonda e dettagliata che non si può lasciare indifferenti. La sua è una Lucia che pare già turbata profondamente sin dall’apparire in scena, e che si evolve con maniacale cura interpretativa in costante tensione emotiva. La linea di canto è continuamente mutevole e del tutto intrecciata alla parola scenica. Una voce che ha acquisito corpo e volume nei centri e si fa luminosa e tagliente nel registro acuto, mentre i sopracuti risuonano a fuoco e centrati sebbene non svettanti. L’impronta tedesca della scuola di canto fa si che il “metallo” della voce sia sempre ben udibile e incisivo nello scolpire un fraseggio mobilissimo e partecipe in cui anche la coloratura è usata sempre e solo a fini espressivi. Altrove la linea di canto e l’abbandono lirico di alcune frasi come “Del ciel clemente un riso la vita a noi sarà” o “Oh gioia che si sente e non si dice” vengono leggermente sacrificati da talune prese di fiato di troppo.

Dal canto suo Vittorio Grigolo dà sfoggio del suo temperamento ipercinetico ed esplosivo e di una presenza scenica che fa del suo Edgardo un giovane baldanzoso e impulsivo. Il timbro è di per se molto accattivante, benché la linea di canto e il fraseggio rimangano per lo più sul forte costante per i primi due atti. “Sulla tomba che rinserra” in particolare rinuncia alle molteplice sfaccettature emotive del racconto, e risuona più come un’invettiva verso il destino avverso del giovane. Ma è con la scena finale che il tenore aretino ci regala il momento perno della sua interpretazione cesellando un “Fra poco a me ricovero”, soprattutto un “Tu che a Dio spiegasti l’ali” (pur abbassato di mezzo tono), invero commoventi. Le mezze voci e i piani sono sparsi a piene mani, e l’enfasi drammatica del giovane tenore qui si sposa benissimo col momento drammaturgico.

Gabriele Viviani è un Enrico dal piglio decisamente energico e baldanzoso. Disegna un personaggio assai irruente ma anche fraterno negli scambi con Lucia nella prima parte del duetto. La voce è caratterizzata da un timbro piuttosto chiaro e da un’emissione di scuola decisamente belcantista. Non rinuncia alle puntature di tradizione né a dare sfoggio di alcune forzature di gusto verista che però ben si confanno al contesto drammaturgico. La presenza scenica è quella di un artista di grande mestiere ed esperienza che sa come tenere la scena e alimentare la tensione drammatica, anche in un contesto registico abbastanza statico come quello della Zimmermann.

Nei panni di Raimondo troviamo il basso Alexander Tsymbalyuk, dotato di presenza scenica imponente e molta dimestichezza nel ruolo di pacificatore degli altrui contrasti. La voce, sebbene modellata su un timbro scuro e di un certo peso, porta seco una certa rocciosità di emissione e proiezione molto “indietro” che fa risultare la linea di canto poco incisiva e monotona soprattutto nel tentativo di disegnare un fraseggio partecipe e coinvolgente. Emerge in particolare nella grande scena che prelude alla Pazzia, in cui il sostegno del coro ha saputo ispirare la performance del basso.

Poco incisivo Juan Josè De Leòn come Arturo. La voce è chiara e il timbro gradevole; tuttavia il fraseggio quasi del tutto indeterminato e una presenza scenica invero poco carismatica lo hanno posto in secondo piano e del tutto indifferente anche all’entrata in scena di Edgardo durante il matrimonio. Buona la prova dei due artisti provenienti dall’Accademia dei solisti della Scala, precisamente Edoardo Miletti come Normanno e Chiara Isotton come Alisa.

Il coro del Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni si conferma compagine di assoluta qualità cesellando una prova vocale fatta di compattezza timbrica e minuziose raffinatezze.

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foto Brescia Amisano