L'inafferrabile visionario

 di Roberta Pedrotti

 

L'ultimo lavoro teatrale di Alessandro Solbiati realizza finalmente l'antico progetto (bloccato a suo tempo per questioni di diritti d'autore) dedicato al Suono giallo di Vasilij Kandinskij. Partitura ben costruita e affidata a esecutori eccellenti, ha potuto specchiarsi nell'ottimo lavoro scenografico di Gianni Dessì e nelle luci ben curate da Daniele Naldi. E' mancato, però, quel colpo d'ala di classe superiore, anche a causa della regia professionale ma non memorabile per incisività di Franco Ripa di Meana.

BOLOGNA, 13 giugno 2015 - A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: le vocali secondo Rimbaud, che con i suoi compagni simbolisti, le radici affondate nelle suggestioni wagneriane la testa inebriata da ogni paradiso artificiale, dall'opera d'arte totale veleggerà verso l'idea di percezione totale, di sinestesia completa, sublime e iniziatica.

Di solo dodici anni più giovane, ma destinato a sopravvivergli di un buon mezzo secolo, è il russo Kandinskij (1866-1944), per il quale la sinestesia è origine, mezzo e fine, aspirazione assoluta scientifica, artistica, vitale, protesa a determinare non solo l'ethos del colore, ma anche le sue corrispondenze con il suono e la forma, a districarsi, dunque, in quella foresta di corrispondenze cantata da Baudelaire con l'ambizione di decodificarla, più che di perdervisi incantato.

Scrive così delle composizioni sceniche che appaiono come utopiche rapsodie di suggestioni e rispecchiamenti percettivi, soprattutto fra suono e colore. Testi dettagliatissimi, maniacali, perfino, ma anche per questo predestinati all'irrealizzabilità, almeno letterale: molti si sono ispirati a Kandinskij tentando di portarlo in scena, ma la sua utopia resta, per molti versi, inafferrabile.

Alessandro Solbiati cerca di afferrarla nella più nota di queste composizioni sceniche, Il suono giallo, l'unica a essere stata pubblicata, già ispiratrice di spettacoli ma i cui diritti erano stati ceduti dagli eredi per la composizione e l'elaborazione di una partitura teatrale vera e propria. Ha dovuto attendere alcuni anni e le scadenze legali, dunque, Solbiati, per poter realizzare il progetto accarezzato da anni.

Una bella sfida, non c'è che dire, per quella che non potrà mai diventare un'opera, ma, secondo la definizione dello stesso compositore, sarà piuttosto una sinfonia scenica che, saggiamente, non si limita a illustrare e realizzare le capillari didascalie visive e sonore avvolte su un testo che più scarno non si potrebbe. Al contrario crea una sorta di drammaturgia del processo creativo intrecciando i versi del Suono giallo con un frammento manoscritto in origine anteposto al saggio Oltre il muro, ma pubblicato solo negli Opera Omnia. Partendo dall'ethos dionisiaco, magmatico, prepotentemente vitalistico che Kandinskij attribuì al colore protagonista, Solbiati, demiurgo wagneriano di musica e libretto, crea una costruzione parimenti magmatica e inquieta, monologo interiore dell'impulso creativo, labirinto psicologico del tormento e dell'estasi, dell'impellenza artistica, del senso di impotenza di fronte all'ispirazione, di costrizione, ricerca, volontà e necessità.

Una tale architettura drammaturgica, ovviamente, presuppone già un primo livello di lettura e interpretazione piuttosto sofisticato, se non iniziatico, vuoi per la parcellizzazione e la reiterazione di un testo tedesco che nasce già frammentario ed ermetico, vuoi la trama sottile di una pulsazione interiore che si articola in un prologo, un epilogo, sei quadri e sette intermezzi con un'akmé centrale e si informa solo nei versi conclusivi “...la forza interiore | fluisce dall'anima, | guida la mano | e si incarna nell'opera”. Solbiati sa il fatto suo, è un compositore preparato, solido, intelligente, la partitura procede sicura, forte di un'indubbia qualità di scrittura e di una ponderata chiarezza d'idee. Manca forse il colpo d'ala, quell'invenzione che, scoccata con precisione, colpisca inesorabilmente lo spettatore e renda veramente teatrale il mondo intellettuale del Suono giallo, conferisca ai suoi simboli un livello di immediatezza che possa essere per il pubblico un più agevole ponte verso i contenuti di maggior profondità e complessità.

È un'osservazione che, però, ci sentiremmo di rivolgere, più che a Solbiati, al suo regista Franco Ripa di Meana e al dramaturg Marco Gnaccolini, la cui mise en espace, pur di ottimo e pulito mestiere, manca di quell'incisività e di quella classe superiore, non realizza pienamente la parabola di tensione che sta alla base dell'idea stessa del Giallo kandinskijano, quasi, nel tessuto di simboli e suggestioni, ci si fermasse un istante prima di colpire il bersaglio, a un passo dalla vetta. Vicinissima, perché l'allestimento è di qualità: è evidente come la fiducia riposta da Teatro Comunale nel progetto si sia tradotta nel coinvolgimento di ottime energie, prima fra tutte (dopo l'autore, è ovvio) quella di Gianni Dessì, scenografo e costumista splendidamente coadiuvato dalle luci di Daniele Naldi. Autentico alter ego demiurgico di Solbiati, in un dualismo che ripete la simbiosi simbolista fra suono e colore, Dessì concretizza nelle sue immagini il senso dell'opera, sì che sono proprio i quadri scenici dell'artista romano a costituire il perno teatrale dello spettacolo, più ancora della loro stessa collocazione registica e drammaturgica pensata da Ripa di Meana e Gnaccolini. La sala gialla ribaltata è insieme intima, familiare e perturbante: la sedia ci ricorda la camera da letto di Van Gogh, ma ci offre anche le coordinate spaziali per capire che l'ambiente è sovvertito. Echeggia così l'aneddoto di Kandinskij turbato dall'effetto straniante di un suo dipinto appeso al contrario a sua insaputa e dunque improvvisamente diverso da come lui stesso l'aveva concepito e conosciuto, eppure ancora suo, frutto inaspettato della sua stessa creatività. Siamo all'interno di una casetta stilizzata, che si rivelerà come un oggetto, un giocattolo, un simbolo della psiche e poi dell'opera, il centro e il fuoco dell'intero Suono giallo. All'esterno (o nella più remota interiorità: gli spazi si compenetrano in dimensioni incommensurabili) appaiono i volti dei Giganti. Sono grotteschi e primitivi, buffi e inquietanti, maschere di un inconscio oscuro e profondo come di un super-ego immane e implacabile. Il taglio luminoso disegnato da Naldi rende la loro apparizione una delle immagini più impressionanti dell'intero spettacolo.

L'impegno profuso in questo debutto è confermato anche dalla qualità del cast anche per una scrittura per lo più d'assieme, con due Mottetti a tre e cinque voci, nella quale poco spazio è lasciato al protagonismo dei singoli e per la quale non si rinuncia a coinvolgere alcuni dei nomi più giustamente noti del panorama della musica contemporanea. Difficile pensare in ambito sopranile a interpreti che possano vantare maggior confidenza con questo repertorio delle bravissime Alda Caiello e Laura Catrani, Paolo Antognetti è un giovane tenore dall'emissione penetrante, Maurizio Leoni, baritono, e Nicholas Isherwood confermano l'intelligenza musicale della loro riconosciuta specializzazione. E sul podio c'è Marco Angius, già applaudito a Bologna nello splendido allestimento dello Jacob Lenz di Rihm di tre anni fa: con lui i complessi del Comunale rinnovano la felice sintonia con la musica degli ultimi decenni. Da segnalare anche la partecipazione dei giovani allievi della scuola di teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna.

Difficilmente si potrebbe immaginare un impegno meglio indirizzato per valorizzare una prima assoluta. Difficilmente basi più intriganti del sogno visionario di un titano della storia dell'arte come Kandinskij. Non sarà, allora, forse proprio questa natura visionaria alla fonte, questa sua inafferrabile utopia a rendere così sfumato il bersaglio di tanta tensione sotterranea? Non sarà forse connaturata al testo l'irrealizzabilità completa e, dunque, la sua possibile lettura solo come canto appassionato e disperato di un processo creativo destinato però a conservare sempre un suo intraducibile tratto esoterico? L'opera vera e propria, dopotutto, nel testo stesso esiste ed è compiuta solo alla fine, nella conquista di quell'ultimo, luminoso accordo consonante che sigilla il dibattersi inquieto nelle nebbie e nel magma dell'inconscio creativo. Quello che ora ha smesso di risuonare era solo la sua ineffabile gestazione.

foto Rocco Casaluci