Catone in Versailles

 di Valentina Anzani

 Imperdibile allestimento di Catone in Utica di Leonardo Vinci all’Opéra Royal di Versailles ad opera di Parnassus Arts Production, che mette in campo un cast tutto al maschile di altissimo livello artistico.

Versailles, 16 giugno 2015 – Catone, amareggiato dalla presa di potere di Cesare diventato tiranno di Roma, si ritira con alcuni seguaci nella nordafricana Utica, dove Cesare si reca per riportarlo a più miti consigli. Una volta compreso che non può nulla contro colui che è ormai capo incontrastato del governo, Catone decide, piuttosto che sottometterglisi, di togliersi la vita. Alla narrazione storica, il librettista Metastasio interseca le relazioni affettive di due coppie d’amanti. Le scelte matrimoniali di Marzia, figlia di Catone, potrebbero sancire un’alleanza di pace se lei si unisse a Cesare, che ama riamata, mentre se accettasse le profferte del re numida Arbace porterebbe al padre le forze armate necessarie alla sua contestazione. Le convenienze politiche e gli obblighi di sangue piegano le volontà dei personaggi secondo canoni di morale e d’onore: Cesare dovrà rinunciare a Marzia per occuparsi dei suoi affari politici e lei acconsentirà di sposare Arbace, onorando la promessa strappatale dal padre in punto di morte. Nemmeno le velleità di vendetta di Emilia ai danni di Cesare andranno a buon fine, anche quando questa vorrà sfruttare l’innamoramento per lei di Fulvio, inviato dal senato al fianco di Cesare. Si dipana così una vicenda che vede contrapposti da un lato i fautori della monarchia e dall’altro quelli della repubblica per un libretto che calcò le scene romane eccezionalmente in una stagione in cui una disposizione papale avrebbe voluto i teatri chiusi (ma la visita a Roma della mecenate principessa Violante di Toscana fu un’ottimo modo per aggirare il divieto).

Il cast che tenne aperto il Teatro delle Dame nella stagione di carnevale del 1728 prevedeva cantanti tra i migliori sulle piazze: Il Cusanino Carestini, Minelli, Il Farfallino Giacinto Fontana. Come allora, epigoni per questa produzione sono alcuni tra i più quotati controtenori d’oggi, per un cast esclusivamente maschile, in un sottile gioco di equivoci queer inevitabile quando sulla scena vi sono presenze en travesti.

Si confermano le impressioni avute con Artaserse [leggi la recensione], altra opera vinciana affrontata nel 2012 dallo stesso gruppo di interpreti, uniti dalla lungimiranza di Parnassus Arts Production: apprezzatissime sono le capacità dei loro allestimenti di rendere vitale libretto e partitura, con scelte ponderate secondo una prassi filologicamente informata, che non stravolge la natura dell’opera pur dandone una lettura propria e avvincente. Per questo allestimento il regista Jakob Peters-Messer ha creato un’impostazione scenica intelligente, dalla cui essenzialità emergono di volta in volta simbolismi e sottotesti, che non eccede nello sfarzo per puntare piuttosto su i bellissimi costumi di Markus Meyer che caratterizzano in pieno il carattere dei personaggi fin dal primo apparire. Seducenti per lo sguardo le proiezioni di Etienne Guiol, che, con essenziali animazioni inframezzate alle incisioni di Piranesi, ha creato una scenografia dinamica ed elegante, capace di esaltare con finezza ogni momento della narrazione.

Primo tra tutti gli interpreti, ha ricevuto ovazioni Franco Fagioli nel ruolo di Cesare. A suo agio in ognuno degli affetti previsti dalle arie a lui affidate, ha sfoderato la sua tecnica stellare soprattutto nell’aria di guerra del terzo atto “Se in campo armato”, in cui, accompaganto da ottoni e percussioni, ha vinto la gara in sovracuti intentata con la tromba. Al suo fianco, protagonista per capacità di coinvolgimento empatico è stato Ray Chenez, interprete di una statuaria Marzia, che mantiene il suo contegno dignitoso e altero nonostante sia di volta in volta usata come pedina da padre e amante, rifiutata, minacciata di morte. Se quando canta Fagioli le sue capacità virtuosistiche portano fuori dalla vicenda per la consapevolezza di assistere a un’interpretazione di straordinaria pirotecnia, Chenez al contrario accompagna dentro la situazione drammaturgica, rendendo partecipi di quanto sia attuale lo scandaglio dei sentimenti umani operato da Metastasio in un Settecento all’apparenza tanto lontano.

Molto apprezzato dal pubblico nel ruolo eponimo Juan Sancho, tenore che, se dalla sua può permettersi di calcare la mano sulle colorature, dimentica la moderazione propria di questa musica, in cui le passioni e gli affetti sono espressi tramite un canone compositivo e non necessiterebbero delle inflessioni veriste in cui troppo spesso indugia. Molto più appropriata la lettura dell’altro tenore, Martin Mitterrutzner (Fulvio), convincente nel gioco di malizie e dissimulazioni che intenta nelle schermaglie amorose con Vince Yi (Emilia). Quest’ultimo possiede una purissima voce di soprano che si proietta smagliante su tutta la gamma dell’estensione, dal timbro tanto luminoso e dai colori tanto varii che gli si perdonano volentieri le imprecisioni di pronuncia e gli eccessi della gestualità. Indelebile l’aria del prim’atto “O nel sen di qualche stella”.

Max Emanuel Cencic, fautore del progetto Parnassus che ormai da anni riscuote consensi per spettacoli di qualità come questo, era l’amoroso Arbace, in abito esotico e in tessitura di contralto. Equipaggiato di una partitura di una dolcezza disarmante, la sua interpretazione opaca ha risentito della tessitura forse per lui troppo grave, ma ha brillato nelle sezioni di virtuosismo più acuto.

Il successo di un allestimento di tal fatta, in cui tutti gli elementi sono curati con equilibrio e precisione, si sposa a meraviglia con la direzione di Riccardo Minasi, in testa all’ensemble Il Pomo d’Oro, che non lascia nulla al caso e propone una orchestrazione spigliata e entusiasta.

foto Martina Pipprich