I tre dell’Otello

 di Francesco Lora

Kunde, Peretyatko e Flórez tengono la locandina del capolavoro rossiniano, oggi alla Scala come otto anni fa a Pesaro. Senza pregio lo spettacolo di Flimm, valida la direzione di Tang.

Saggi, Otello, tragedia rossiniana

MILANO, 20 luglio 2015 – Come se il tempo si fosse fermato. Per il suo nuovo allestimento dell’Otello di Rossini (sette recite dal 4 al 24 luglio) il Teatro alla Scala ha riconvocato lo stesso trio di punta del ROF di Pesaro 2007: Gregory Kunde nella parte eponima, Olga Peretyatko in quella di Desdemona e Juan Diego Flórez in quella di Rodrigo. Le cose sono cambiate ora più ora meno. Rimpiazzando Giuseppe Filianoti rinunciatario, proprio con l’Otello pesarese Kunde avviò una nuova carriera nel segno di parti rossiniane baritenorili (Pirro in Ermione, Antenore in Zelmira), spingendosi poi verso il repertorio verdiano più tardo o altre perlustrazioni tardoromantiche; i maligni lo davano per già logoro e suicida, mentre i fatti hanno dimostrato in lui l’inatteso eroe degli ultimi anni: il miglior Manrico per Il Trovatore, il miglior Riccardo per Un ballo in maschera e il miglior protagonista per l’altro Otello, nonché l’Énée favoloso dei Troyens di Milano 2014.

Mai abbandonato il Moro di Rossini, il tenore statunitense vi torna ora a valori ridistribuiti: l’articolazione della coloratura si è fatta laboriosa pur senza perdere il decoro; l’estensione si conserva ampia, con un registro acuto di accresciuto tonnellaggio; lo smalto è ormai consunto, ma quanto resta del timbro è nobilitato da un’emissione tra le più ispirate; s’impongono l’accento drammatico e il temperamento attoriale, elevati a potenza rispetto al Kunde storico (già notevole) e oggi con rivali pochi o nulli: non si perde una parola a partire dal primo enfatico recitativo, e in ogni sillaba è modellata la psicologia del personaggio, senza cadere in calligrafismi madrigalistici.

Il discorso è più stabile a proposito della Peretyatko, benché allora giovanissima e oggi in piena carriera. Ella intona i passi elegiaci con encomiabile purezza tecnica, e si lancia con coraggio in quelli patetici di forza. Ma sono questi ultimi a mettere a nudo la sua sostanziale estraneità alla parte di Desdemona, per ragioni non tanto di tessitura vocale quanto di attitudine teatrale. Nel Finale I e soprattutto nel Finale II, quindi ancora in tutto l’unico enorme numero musicale che costituisce l’atto III, le situazioni vertono sulla protagonista femminile e danno luogo a enfatiche scene strappalacrime; come spesso accade nel teatro d’opera, a dar loro forza deve essere una primadonna impetuosa in personaggio perseguitato, la quale trascini il pubblico all’orizzonte retorico proprio e del compositore, trasfigurando nell’assoluto gli affetti del carattere portato in scena. E in questo ragionamento la parte di Desdemona ha fatto scuola più d’ogni altra, se tanto hanno fatto scrivere le declinazioni interpretative della Colbran, della Pasta e della Malibran, fino a quelle della Gasdia, della Devia e della Bartoli: manuali viventi dell’essere musicista in palcoscenico. Per contro, nella Desdemona della Peretyatko si assiste all’immedesimazione, limitata alla tenerezza incredula e indifesa, senza che nel contempo prenda forma una trascinante forza interiore condivisa con il pubblico; si compiange la donnetta impersonata senza che venga in mente d’applaudire alla primadonna.

Poche parole su Flórez, per il quale il tempo è categoria insussistente: intatto per freschezza timbrica, facilità estensiva e brillantezza virtuosistica, il massimo tenore rossiniano degli ultimi vent’anni non potrebbe smettere di essere il Rodrigo di riferimento dell’attualità. Chiose sparse sul resto della compagnia di canto: eccellente Roberto Tagliavini, che pecca solo di baldanza giovanile nella più matura parte di Elmiro; ed eccellente Annalisa Stroppa come Emilia, a dispetto di una parte con picchi sopranili e di doti che dovrebbero schiudere più che il comprimariato. Bizzarro è il caso di Edgardo Rocha: dopo essersi già distinto come ottimo Rodrigo al fianco della Bartoli [leggi la recensione da Salisburgo], lo si ritrova qui retrocesso alla modesta parte di Iago, dove una tessitura insistente sul registro grave lo limita nella risonanza e nella brillantezza. Funzionali Nicola Pamio come Doge e Sehoon Moon come Godoliero.

Senza pregio l’allestimento scenico, dove una volta di più le casse liriche sono alleggerite da artisti insufficienti per estrazione teatrale, erudizione generale e dedizione specifica. Come regista, Jürgen Flimm è perlopiù assente: il gesto dei cantanti è guidato dalla loro sola esperienza, mentre in ogni assieme la lista dei personaggi e la massa del coro non ha altra indicazione che di disporsi in linea al proscenio. Dove la mente registica pretenda di pensare, è in scena una poetica teatrale da cavernicoli se non la festa di veri e propri errori esegetici o meccanici. Seguono i soliti esempi sparsi. Vero è che nel primo Ottocento la caduta Repubblica di Venezia era descritta a fosche tinte; ma ciò nella corruzione e nella terribilità delle sue istituzioni legislative e giudiziarie, e non già – come Flimm vuole – nella caricaturale ridicolezza di un doge che si trascina paludato e tremolante. Vezzo tipicamente tedesco è poi la predica di una drammaturgia dove, anziché indagare i caratteri nelle loro frastagliate composizioni, contraddizioni e dissimulazioni, tutto deve essere manifestato nella sua forma bruta: siccome è il cattivo, Iago non può limitarsi a parlare alle spalle di Desdemona, ma deve quantomeno inseguirla, malmenarla e violentarla. Citazioni inutili: si vorrebbe qui che il primo cantabile di Otello sia ispirato dal profumo del fazzoletto lasciato cadere a bella posta da Desdemona; ma il richiamo a Shakespeare è sterile, ché la fonte letteraria per Rossini è altra e lo stratagemma del fazzoletto non vi tiene ruolo veruno. Senza senso è infine l’assegnazione delle battute di Lucio, personaggio soppresso, a Iago stesso che parla come tale senza mutare d’abito.

Degno d’ilarità è a sua volta il ringraziamento, nel programma di sala, che Flimm rivolge ad Anselm Kiefer, «per le numerose conversazioni cordiali e i consigli altrettanto stimolanti quanto competenti», senza i quali egli non avrebbe «mai potuto ideare questa scenografia per Otello»: scenografia che, alla prova dei fatti, si limita a tre teli grigi, fissi e astratti, e a decine di sedie da giardino irrelate all’azione. Anche i costumi di Ursula Kudrna sono mera prova d’astensione: cappotti e tube buoni per tutti gli usi, un paio di corazze per mettere la didascalia al duello e qualcosa di più svolazzante per evidenziare, in Desdemona, la frivolezza che il personaggio non ha. Ci si riaddolcisce la bocca con l’Orchestra e il Coro del Teatro alla Scala, al solito doviziosi di colori, e persino con la concertazione di Muhai Tang: bistrattato da pubblico e critica, il direttore cinese confida troppo nella distesa melodica degli archi e si avvale ben poco dell’interpunzione ritmica di legni e ottoni; però i tempi sono adeguati, senza rischio di precipizio, e il primato del canto è assecondato con morbidezza. Fatti i conti: rare volte, dal podio, è andata così liscia al Rossini serio.

foto Matthias Baus