La bohème torna a Caracalla

di Stefano Ceccarelli

Terza opera in cartellone al festival estivo delle Terme di Caracalla, quest'anno interamente dedicato a Giacomo Puccini, La bohème chiude il trittico (con Madama Butterfly e Turandot). Lo spettacolo è quello dello scorso anno, per la regia di Davide Livermore, oramai rodato da tre anni al Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia debuttò nel 2012. La direzione è affidata a Paolo Arrivabeni, italiano e belga d’adozione – è, infatti, il direttore musicale dell'Opéra Royal de Wallonie di Liegi –, che propone complessivamente una più che buona lettura, facendo certamente cantare le voci e mostrandoci, in più punti, le splendidezze della partitura. Gli applausi finali decretano la riuscita della serata e, più in generale, la bontà di una produzione che l'Opera di Roma ha saggiamente riproposto.

Leggi la recensione di Turandot a Roma, 24/07/2015

Leggi la recensione di Madama Butterfly a Roma, 09/07/2015

Leggi la recensione delle recite della Bohème dello scorso anno

ROMA, 3 agosto 2015 – Torna La bohème nel suggestivo scenario delle Terme di Caracalla. Quest'anno le è demandato il compito di suggellare la triade pucciniana, come terzo spettacolo, in contemporanea alla Turandot di Krief (che, anzi, chiuderà effettivamente il festiva monografico pucciniano con l'ultima recita a Caracalla l'8 agosto, benché abbia debuttato prima della Bohème). La ripresa dello spettacolo a firma di Davide Livermore è un'accorta e intelligente trovata: rileggendo la recensione che scrissi, proprio un anno fa, su questo spettacolo, mi sono tornati in mente il clima di tensioni sindacali, gli scioperi e la totale insicurezza economica in cui versava il vascello dell'Opera di Roma. Il tutto coniugato a un’estate dal clima ballerino. Nulla di più lontano dalla ripresa e dal rilancio d'immagine che il teatro sta vivendo in questa stagione; non ultimo protagonista ne è questo per più versi straordinario festival estivo.

Il mio giudizio sulla regia di Davide Livermore, che firma anche scene, costumi e luci, non può che rimanere positivo. Anzi, rispetto alla scorsa edizione, ho trovato la ripresa di quest'anno più pulita e ordinata: l’attuale cast, soprattutto, ha recitato assai meglio e la regia m'è sembrata addirittura più dinamica. L'idea di fondo è quella di una Parigi contemporanea a Puccini, quindi fin de siècle – un sessantennio successivo all'ambientazione presupposta nel libretto, il 1830 –, evocata mediante la produzione (all'epoca stabilmente à la mode, dopo l'esplosione dell'avanguardia) dell'impressionismo e post-impressionismo gravitante attorno all'ambiente e agli atelier parigini. Livermore immagina che sia Marcello, nel suo studio, il demiurgo immaginifico di quest'universo iconografico reso quasi tattile dall'uso della proiezione di quadri animati (video-mapping). Le citazioni artistiche sono innumerevoli. Ho riconosciuto almeno: Monet, Renoir, Degas, Van Gogh, fino ad arrivare persino a Fontana (quando Marcello, all'inizio del I quadro, «affog[a] un Faraon»). E sono fonte di un raro piacere estetico, tutto da delibare. Scenografia – a ben pensare – molto poco realistica, abbastanza innovativa per un’opera come La bohème; anzi, "artificiale" nel senso in cui lo è un'opera d'arte: l'alternarsi delle tele, volte a ricreare un correlativo oggettivo di una partitura ch'è «una sorta di neo proto sceneggiatura cinematografica» (come, acutamente, ha osservato proprio il regista nelle sue note, nel programma di sala), c'immerge in un mondo straniante, artificialmente artistico, impressionista: le pennellate di Livermore si arricchiscono anche nei costumi, per nulla pretestuosi (anche quando, nel IV quadro, per Mimì e Musetta avrebbe potuto pensare a qualcosa di più pomposo), e citanti tutto quel patrimonio iconografico ─ si pensi alle degassiane ballerine, in candido tulle, del II quadro. La gestione registica dei cantanti è ottima: i giochi e gli scherzi di Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline sono curatissimi nei movimenti e riescono riccamente frizzanti. E Livermore non ci fa mancare un coup de théâtre: dei coriandolini bianchi a mo' di neve all'inizio del III quadro. Ma il suo capolavoro registico è il II. Il Quartiere Latino è un pullulare di personaggi d'ogni sorta: circensi, venditori ambulanti, giocattolai ecc., con tanto di trampoliere e di mangiafuoco che apre e chiude il quadro con una bella vampata infuocata. In tutta questa bolgia parigina emerge Musetta che, intonando il suo scherzoso valzerino, fa rallentare l'azione (in una sorta di moviola) catalizzando l'attenzione di quel buffo universo.

Musicalmente, questa ripresa di Bohème ha più di un pregio, come pure – che peccato! – alcuni difetti. La direzione di Paolo Arrivabeni è assai buona: certo, a tratti gli manca il frizzo, l'abbrivio per rendere ancor più spumeggianti taluni momenti della partitura (l'incipit del I quadro, molti snodi del II). A ben vedere, il III e il IV sono i quadri in cui riesce meglio: trova pennellate orchestrali magnifiche per descrivere le nebulose atmosfere della barriera d'Enfer; a livello di timing, di agogica, è sostanzialmente ottimo nella serie di duetti del III (fra Mimì e Marcello, fra questo e Rodolfo e infine il quartetto, con il sopraggiungere di Musetta), e scopre venature mortifere nel passaggio di Rodolfo «Mimì è tanto malata», dove esalta quella sorta d'accompagnamento a mo' di marcia funebre. Del IV sono assai riusciti i passaggi in cui esalta gli ariosi pregni d'amore e di morte di Mimì. Di tanto in tanto, propone anche qualche pausa, qualche indugio insolitamente lungo, mostrando un piglio di personale interpretazione più che mera lettura; certo, siamo lontani dalle vette di perfezione di un Serafin, un Votto, un Karajan o uno Solti (me ne sarò dimenticati, certamente, altri: ma questi li serbo nel cuore), però si percepisce chiaramente un'intelligenza direttoriale. Il cast è di talento abbastanza omogeneo, con qualche distinguo. Incredibile la Mimì di Serena Farnocchia: soprattutto impressiona la tecnica, con la quale riesce a padroneggiare un ruolo in cui si canta molto e non mancano certo punti di ardue difficoltà, che la Farnocchia affronta con un gusto impareggiabile, tutto all'italiana. Prima di tutto: il fraseggio. Ricercato, raffinato, sorretto da un'eccellente pronuncia. Il suo «Mi chiamano Mimì» (I) è una culla di dolcezze: mezzevoci, delicatezze, glissandi/portamenti, filati in acuto con smorzando (sul la naturale/sol diesis sopra il rigo di «primavere»). Con quanto strazio canta l'arioso «Rodolfo m'ama» (III) e il duetto con Marcello; con quanta tristesse interpreta «D'onde lieta uscì»; sì delicatamente, indi, termina il quadro col pregevolissimo duetto con Rodolfo. L'arioso della sua morte nel IV, «Sono andati? Fingevo di dormire», è magnifico, commovente. La Musetta di Rosa Feola è peperina, scanzonata, mai volgare: il suo valzer «Quando me'n vo' soletta per la via» riesce spumeggiante. Ma non rimane alla frivolezza: l'ethos del personaggio giunge a profonda contrizione nel IV. Il Rodolfo di Abdellah Lasri ha più di un problema: tenore sostanzialmente lirico/leggero, dalla scarsa potenza (benché vanti un timbro chiaro), spesso esegue ingolando lievemente; ed emette acuti più di testa, che in maschera. La sua scarsa dimestichezza con l'italiano, congiunta a qualche connaturato difetto di pronuncia, ne penalizzano ─ e non poco ─ la performance. Si impegna al massimo in «Che gelida manina!», ma il risultato non è dei migliori: il salto re-si bemolle sovracuto (su «chi son») testimonia tutti i limiti tecnici, corroborando l’impressione di assenza di spinta sugli acuti misti in falsetto. Tutta l'aria manca di brillantezza, di variazione volumetrica della voce, di fraseggio saldo e sicuro. (A onor di cronaca: la sua performance è stata qui applaudita…). Nel duettino, a coda di quadro, «O soave fanciulla, o dolce viso», nel confronto con la Farnocchia, emergono tutti i suoi limiti (e anche l'intonazione è periclitante). Si lascia, al contrario, apprezzar meglio nel III quadro, nel duetto con Marcello ─ particolarmente il funereo arioso «Mimì è tanto malata!» ─ e in quello successivo con Mimì, dimostrando che il canto di carattere, "di cuore", è il suo forte (convinzione che mi s'è rafforzata ascoltando anche i suoi interventi nel finale IV). Un vero peccato, giacché ha buona presenza scenica. Julian Kim offre vocalmente un apprezzabile Marcello: la voce è abbastanza piena e tornita, sebbene non particolarmente brunita né espressiva. Fraseggia con scioltezza, mostrando una buona padronanza della lingua – mercé gli studi e le masterclasses italiane. Nel III quadro, nei duetti con Mimì e Rodolfo, dà il meglio di sé; apprezzabile anche l’arioso ad inizio di IV, «Io non so come che sia». Ottimi Alessio Arduini nel ruolo di Schaunard e Carlo Cigni in quello di Colline: Arduini sciorina mimica e voce vibrante, piena, come ad esempio nel racconto della morte del pappagallo Lorito (I); Cigni scolpisce bene (pur non essendo nel pieno della sua potenza vocale) una parte in cui molto è affidato all’accento snob e altero del personaggio: l’aria della zimarra (IV) è ottima e ricompensata da un sincero applauso. I comprimari sono assai valenti: spiccano il Parpignol di Giordano Massaro, che ci fa godere uno squillantissimo «Ecco i giocattoli di Parpignol» e il Benoît/Alcindoro di Roberto Accurso, che caratterizza molto bene i due ruoli; bello squillo ha anche Francesco Luccioni come Sergente dei doganieri. Il coro dell’Opera di Roma (Roberto Gabbiani) si fa apprezzare, soprattutto nel II quadro: in particolare la compagine femminile – le mamme che sgridano i monelli, nel II, e le lattivendole nel III. Delizioso il coro di voci bianche (José Maria Sciutto): con che brio intona «Parpignol, Parpignol!».

In conclusione: coinvolgente l’allestimento e la regia, buona la direzione e quasi tutto il cast di canto, ad eccezione del tallone d’Achille di Lasri. Con un Rodolfo migliore avremmo avuto una serata affatto diversa. Come che sia, nel complesso la recita è più che riuscita.