Quarantun anni sotto la cenere

 di Francesco Lora

Il Festival della Valle d’Itria ospita la prima assoluta di una nuova opera di Tutino, Le braci. Musiche di valore e interpreti di vaglia colgono il successo e fanno attendere le prossime recite fiorentine.

MARTINA FRANCA, 1° agosto 2015 – Il 41° Festival della Valle d’Itria si è appena concluso, e questa rivista è scesa con rapidità in medias res nel recensirne tre spettacoli (L’incoronazione di Poppea di Monteverdi [leggi la recensione], Medea in Corinto di Mayr [leggi la recensione] e Don Checco di De Giosa [leggi la recensione]). Lo spazio di una più ampia premessa, se non di una digressione, spetta però allo spettacolo inaugurale dell’intera rassegna, l’opera Le braci di Marco Tutino, in prima rappresentazione assoluta il 15 luglio nel Palazzo Ducale di Martina Franca e quindi lì replicata il 1° agosto. Come il Maggio Musicale Fiorentino, anche il Festival della Valle d’Itria è nato con lo scopo di restituire alle scene capolavori operistici dimenticati, o più nominati che ascoltati. Ma mentre la rassegna fiorentina ha via via smarrito la vocazione storica, quella itriana ha lasciato un segno tanto fondo nei conseguimenti da dover estendere le mire.

Suo obiettivo particolare era quello di riabilitare – Rodolfo Celletti definitore – le opere del repertorio belcantistico, e in special modo il Settecento napoletano di Pergolesi, Traetta, Piccinni e Paisiello da una parte, l’Ottocento romantico di Rossini, Mercadante, Donizetti e Bellini dall’altra. È finito con il fare scuola e con il diffondere nel mondo una fetta di repertorio e uno stile di canto: senza il precedente di Martina Franca, il Rossini Opera Festival di Pesaro non avrebbe avuto la stessa forza, né sarebbero oggi immaginabili le molte rassegne operistiche monografiche sorte per l’Europa. Così, il Festival della Valle d’Itria è passato a dedicarsi a tutto ciò che si può dare di operistico, non solo nel repertorio ma anche nell’iniziativa, e ha preso non solo a recuperare l’esistente, ma anche a commissionare il nuovo, affinché la storia dell’opera sia non solo passato glorioso ma anche presente vivido.

Negli ultimi anni, quasi ogni edizione ha accolto uno o due titoli in prima assoluta, con la particolarità di incontrare sempre non i mugugni bensì i consensi del pubblico: il ricordo va in particolare a Nûr di Taralli (2012) e Maria di Venosa di D’Avalos (2013). La magica ricetta per propinare la pillola contemporanea è presto detta: riferimento ad autori che non disdegnano la sana collaborazione triangolare tra chi compone, chi esegue e chi ascolta; presentazione dei lavori con la stessa dignità – non superiore, non inferiore – di informazione, tempi e luoghi data ai titoli di autori storici; ricorso a interpreti di chiara fama, cari ai melomani e chiamati a testimoniare il proseguimento della tradizione compositiva operistica: vedi Tiziana Fabbricini e Paolo Coni nella citata Nûr. La nuova opera di Tutino, collaudata lo scorso anno a Budapest ma pensata e ritoccata per Martina Franca, tiene fede ai tre punti e incassa un successo ammirevole.

Il soggetto è tratto dall’omonimo romanzo di Sándor Márai ed è ridotto a libretto da Tutino stesso: a cavaliere dell’apice e della disfatta dell’Impero austro-ungarico, includendo la prima guerra mondiale e alla vigilia della seconda, gli amici Henrik e Konrad hanno vissuto come gemelli siamesi, hanno in diverso modo amato la medesima donna, si sono persi di vista dopo una misteriosa caccia, si ritrovano infine per mettere in comune ricordi e rancori, cercando il bandolo di una matassa abbandonata quarantun anni – gli stessi e molti del Festival della Valle d’Itria – e quarantatré giorni prima. Tutti contati. L’azione è nella gioia e nel tormento degli episodi rivissuti, mentre il presente è il confronto di due psicologie anziane. La musica ripiglia il discorso dai Pizzetti, dai Poulenc e dai Britten, percorsa da geli, lamine, bagliori ed evocazioni del gusto cinematografico più nobile e più abile in atmosfera descrittiva e in introspezione espressiva.

Ferratissimo mentore della partitura è il giovane direttore Francesco Cilluffo, che da quelle pagine pretende di trarre a viva forza, quand’anche nel dettaglio più riposto, ogni informazione, inflessione, suggestione timbrica: per i novanta minuti dell’atto unico, la narrazione consiste così in un magistrale accumulo di tensione drammatica, mentre l’Orchestra Internazionale d’Italia – compagine in sé tecnicamente modesta e instabile nell’organico – si lascia trascinare con tanta convinzione da consegnare la sua più temperamentosa prova dell’anno. E struggente nella sua sobrietà è l’allestimento con regìa di Leo Muscato, scene di Tiziano Santi, costumi di Silvia Aymonino e coreografia di Mattia Agatiello: il castello dove Henrik si è chiuso a invecchiare è un rudere ravvivato dal materializzarsi di ricorsi valzeranti; e le ali di macerie sono la via che sfuma verso nebbiosi esterni di battaglie passate, militari o amorose.

Per i due protagonisti – Henrik più imperioso e loquace, Konrad più timido e taciturno – la locandina cala gli assi. Vertiginoso è lo Henrik di Roberto Scandiuzzi: la sua stessa presenza fisica pare cavata da uno degli ultimi ritratti asburgici in uniforme, mentre la voce di basso trabocca d’armonici come se fosse un organo e sbaraglia ogni insidia al primato della scuola italiana che essa rappresenta; eppure, tanta sovrabbondanza di mezzi non è che l’avvio di uno strenuo lavoro dentro le pieghe psicologiche del personaggio. Entro le pieghe, ma con sottigliezze lancinanti, si sofferma invece Alfonso Antoniozzi, il baritono buffo che in altro repertorio sa far sorridere poiché sempre alla ricerca dell’icosaedro umano: quasi non lo si ascolta cantare, ma tutto è un sussurro, un tentennare, un ripiegamento, un gesto discreto e tremante, un Konrad che a differenza di Henrik si è chiuso nel silenzio vivendo anziché morire in un esilio cistifellico.

Agli anziani protagonisti corrispondono le proiezioni di sé stessi ventenni, nelle quali il grado di estroversione pare capovolgersi: il Giovane Henrik del basso Pavol Kuban è infatti deciso e sicuro, ma anche conciso e sfuggente, mentre il Giovane Konrad di Davide Giusti si fa tanto più spazio nell’attenzione dello spettatore grazie a un timbro di straordinario bouquet mediterraneo, tale da far implorare una più accurata briglia tecnica lungo una gamma talvolta difficoltosa. Fresco e giovane, sofferto e dignitoso, ora nel canto ora nel carattere, è l’apporto di Angela Nisi nelle apparizioni della doppiamente amata Kristina, mentre Romina Tomasoni accoglie nella pasta mediosopranile la cordialità, il garbo e la fermezza della domestica di vecchia data. Con locandina immutata, lo spettacolo è da rivedere e riascoltare nell’Opera di Firenze per il Teatro del Maggio Musicale: quattro recite dal 5 al 15 novembre, e la promessa di un nuovo brano aggiunto.

foto paolo Conserva