Zenit e Nadir

 di Andrea R. G. Pedrotti

Gregory Kunde debutta all'Arena di Verona e nei panni del condottiero Radames e ancora una volta lascia ammirati e sconcertati per la prestanza vocale quasi sfrontata - non solo rispetto a età e anni di carriera - e la finissima, versatile e scrupolosa intelligenza musicale. A tanta eccellenza, da autentico Oltreuomo al di là del bene e del male, si contrappone all'opposto l'infelice direzione di un Andrea Battistoni assolutamente non all'altezza della situazione.

VERONA, 11 agosto 2015 - Torna Aida all'Arena, esattamente centodue anni e un giorno dopo la prima del 10 agosto 1913, con Giovanni Zenatello e Tullio Serafin. In fondo non è cambiato molto nell'ultimo secolo: l'anfiteatro è sempre popolato da uomini dalle storie e dalle provenienze molteplici. Allora come oggi si ripete lo strano rito di una mistica Babele. L'Arena è gioco e sogno trascendente, quello perduto nella fugace infanzia. Nel corso del secondo atto, al levarsi delle auree trombe dell'esercito egizio, un signore non certo giovanissimo e dall'aria stanca, arcigna e pensierosa, si è di colpo levato, risvegliando il sopito fanciullo dormiente in lui, esclamando, con la voce rotta, emozionata e una luce negli occhi: “eccole!”. A noi piace immaginare che anche gli ospiti della rappresentazione del 1913, abbiano provato ugual stupore: uomini di cultura e del popolo, che si affacciavano all'alba del festival veronese, mentre vivevano il tramonto del cosiddetto “secolo lungo”. Puccini, Boito e tanti altri, forse ebbero scaldato il cuore dalla medesima meraviglia nel trovarsi innanzi grandi scene tridimensionali, centinaia di coristi e monumentali masse artistiche, icone di quell'antico Egitto che fu quasi una mania del XIX secolo da Champollion a Giovanni Battista Belzoni, fino a molti altri. Nessuno è più serio degli adulti quando giocano: per un bambino è abitudine quasi dozzinale, mentre in un uomo o una donna maturi è il risveglio d'un animo sopito e necessario. L'Arena è la prova tangibile dell'esistenza dell'infanzia come modo d'essere, non della condizione chiusa e a sé stante di bambino, adulto, vecchio. Siamo sempre noi, con la stessa anagrafe e lo stesso patrimonio genetico, ma nel percorso della nostra esistenza abbiamo maturato esperienze che, per motivi cronologici, prima non potevano avere. A un infante (non bambino) bisogna imporre doveri che non conosce, ma mai privarlo del diritto al gioco e all'immaginario trascendente; non capiamo perché dagli adulti, giustamente, si pretendano doveri, che ormai devono appartenere alla sfera dell'immanenza del loro animo, ma sia vietato il diritto al gioco e al sogno. L'adulto (che come il bambino, non esiste), lo cercherà per sempre e questo è il motivo per cui l'Arena è immortale; perché si gioca, ci si diverte, si sogna, con la grandiosità, la maestosità e la disciplina dell'anfiteatro scaligero.

Ma chi non è mai stato bambino? Chi non sa giocare? Chi non ha mai imparato il rigore? Purtroppo anche questa analgesia, questa mediocrità esiste, sintetizzata in un pesante disordine privo di sentimento, ma pregno di confusione. Questa è stata la direzione di Andrea Battistoni, alla sua peggior prova areniana. Generalmente non amiamo principiare parlando del direttore d'orchestra, ma questo è responsabile di uno spettacolo, considerata anche la sua veste di concertatore. La sera dell'11 agosto la partitura di Verdi è stata maltrattata dal Battistoni dalla prima all'ultima nota. Non è stata eseguita una sfumatura, una ricerca di colore, una dinamica efficace. Tutto è stato forte e confuso, ai limiti di un chiasso sguaiato. Andrea Battistoni non può più appellarsi all'alibi di una presunta giovane età; innegabile anagraficamente, ma inesistente sotto il profilo artistico. Ormai da molti anni sale sul podio di numerosi teatri internazionali e può vantare un'esperienza decisamente maggiore rispetto a quella di molti suoi colleghi più anziani. Ma la gioventù non è questione legata esclusivamente ai numeri impressi sulla carta d'identità. Trovare un accordo accettabile nella sua direzione ci risulta impossibile: le sezioni sono completamente scollate, il rapporto fra buca e palcoscenico d'una imprecisione imbarazzante. Le atmosfere dell'Egitto, il mistero, il misticismo sono completamente assenti. Non pretendiamo certo una concertazione della levatura di quella ascoltata lo scorso 19 luglio nello stesso spazio, ma almeno qualcosa di accettabile. La scena del tempio è stata la meno coinvolgente a fascinosa da noi mai ascoltata. Il Maestro Gavazzeni, in un'intervista che ci rilasciò lo scorso anno, rammentava come il coro dovesse far provenire la sua voce “dalla tomba”. Fu una bellissima metafora, non realizzata in quest'occasione. Potremmo concentrarci su un trionfo chiassoso, urlato e disordinato, o su una imbarazzante scena del giudizio. Non che il resto della concertazione sia stato migliore, ma non possiamo addentrarci nella costruttiva analisi di una prestazione distruttiva di armonia, melodia, fraseggio musicale, etc...

La messa in scena resta quella descritta in occasione del nostro resoconto delle recite del 20 giugno [leggi] e del 19 luglio [leggi]. Permane la gran levatura artistica della coreografia di Zanella, capace, anche in quest'occasione, di dare fluidità, musicalità e partecipazione ai varii numeri musicali.

È emozionante lo scambio fra sacerdotesse bianche e grigie, che, durante il rito, accompagnano magistralmente libretto e linea musicale, sottolineando le differenti accentazioni verdiane, specialmente nella frase “Nume, custode e vindice”, con atteggiamenti dalla ritmicità cangiante, conformi al crescendo sonoro di coro e orchestra, voluti dal maestro di Busseto.

La compagnia di canto era nettamente divisa in due tronconi: da una parte la personificazione lirica del Übermensch (l'oltreuomo) teorizzato da Friedrich Nietzsche dall'altra semplici appartenenti al genere umano. Non abbiamo mai particolarmente apprezzato il filosofo tedesco, ma dobbiamo inchinarci innanzi a Gregory Kunde, il quale ha dimostrato, ancora una volta, di non essere artista ascrivibile ai comuni mortali. Arriva in Arena sessantenne con più freschezza vocale di molti giovani colleghi (non devono prendersela, sono umani... loro). Incurante della direzione di Battistoni mette in luce fraseggio ed espressione memorabili. Finalmente viene sfatato il mito che in Arena il pubblico voglia solo acuti, poiché mai ci saremmo sognati di ascoltare “Celeste Aida” chiusa con una perfetta messa di voce e un emozionante Sib eseguito in pianissimo, come voleva Giuseppe Verdi. Non è da meno nel duetto del III atto “Pur ti riveggo, mia dolce Aida” e in quello del IV “Già i sacerdoti adunansi”. Kunde è anche abile attore, sempre partecipe, perfetto condottiero egizio, innamorato e fiero nelle giuste proporzioni.

Scendendo dall'Olimpo, migliore del cast è stata, senza dubbio, l'Aida di Amarilli Nizza. Non ha certamente la purezza nel canto di Maria José Siri, che affronta il ruolo con un'idea stilistica molto diversa; tuttavia notiamo nella Nizza una notevole precisione musicale, accompagnata - come le è consueto  - da un'importante partecipazione emotiva. Accenti e fraseggio sono sempre curatissimi e la cantante milanese non si fa sfuggire il più piccolo stato emozionale, senza scadere mai in un disordinato verismo stereotipato. Sinceri complimenti all'artista che fa emergere un personaggio di gran rilievo e personalità.

Pur senza punte d'eccellenza notiamo il buon Amonasro di Marco Vratogna, che risolve la parte con gran mestiere e professionalità. Forse sarebbe stata preferibile una maggior attenzione al fraseggio, ma con un accompagnamento orchestrale come quello che si è descritto pensiamo non potesse fare molto di più.

Deludente la prova di Sanja Anastasia (Amneris), che già ascoltammo nello stesso ruolo lo scorso anno, sotto la bacchetta di Julian Kovatchev [leggi la recensione]. La vocalità è migliorata, rispetto al 2014, ma è lei l'interprete a soffrire di più la concertazione di Battistoni. Eccessi nel portamento vocale e una recitazione spesso sopra le righe vanificano le buone doti di un'artista che abbiamo sempre apprezzato. Disastrosa la scena del giudizio: Amneris è una giovane donna innamorata, ferita, delusa e umiliata, ma pur sempre la figlia del Faraone. Accecata dall'amore e dalla gelosia causa la condanna a morte dell'amato che mai la corrispose. La sua è certo un'isteria, ma l'isteria di una principessa, senza contare che la prosodia musicale verdiana sottolinea già di per sé il tormento interiore della giovane. Non dimentichiamo che fu lo stesso maestro di Busseto a sottolineare come, nella Traviata, Violetta non dovesse mai tossire, specialmente del III atto. Violetta è tisica, Amneris è isterica, ma non deve darlo a vedere platealmente. Sta maledicendo i sacerdoti, ma, in fondo, sta maledicendo se stessa. È il dramma dell'impotenza e della disperazione, che passa tutto dalla melodia. Purtroppo alla Anastasia spesso la voce non ha retto con salite in acuto mancate o difficoltose, a eccezione di quella finale, preparata lungamente. Torniamo sul direttore: Battistoni avrebbe potuto avere certo maggior accortezza e attenzione alle voci, evitando una tal pesantezza orchestrale in un momento che viene al termine di un'opera molto impegnativa per il mezzosoprano.

Il cast è ben completato da Marco Spotti (Ramfis) e Roberto Tagliavini (Il Re), dal sempre preciso Francesco Pittari (Un messaggero) e da Francesca Micarelli (Una Sacerdotessa).

Serata negativa per il coro, diretto da Salvo Sgrò, completamente esente da colpe, come i suoi artisti.

Ricordiamo, come doveroso, i primi ballerini: le sempre elegatissime Alessia Gelmetti e Teresa Strisciulli, assieme ai bravissimi colleghi maschi Evghenij Kurtsev e Antonio Russo.

Regia e scene erano di Franco Zeffirelli, i costumi di Anna Anni e la coreografia di Renato Zanella.