Un terremoto e un non-musical

 di Stefano Ceccarelli

Al Teatro Costanzi va in scena un finale di stagione interamente dedicato al balletto e all’opera novecentesca: un’affascinante commistione di classicità e sperimentazione moderna, all’insegna, per quanto riguarda l’opera, delle musiche di Adams e Weill. L’operazione è del massimo interesse, coraggiosa e anticonformista: si sa che un’opera del repertorio novecentesco non ha certo lo stesso appeal di un classico consacrato da secoli nei teatri di tutto il mondo. Ma il Costanzi si sta dimostrando, ancor forse più di un tempo, sensibile al repertorio contemporaneo: basti considerare che la nuova, elettrizzante stagione operistica prenderà avvio con The Bassarids di Henze.

ROMA, 16 settembre 2015 – Un dittico novecentesco è il particolare finale scelto per la corrente stagione operistica romana: I Was Looking at the Ceiling e Austieg und Fall der Stadt Mahagonny, rispettivamente di John Adams e Kurt Weill, sono partiture che non si ha la fortuna di ascoltare frequentemente, né, tantomeno, di facile fruizione.

I Was Looking nasce da una collaborazione fra Adams, il regista Peter Sellars e la scrittrice e attivista politica June Jordan. È, dunque, un’opera eclettica, condita di molti e diversi elementi: una storia contemporanea di ordinaria violenza, di emarginazione e povertà, che però ha in sé connotati di leggerezza erotica paragonabili al Midsummer shakespeariano e alle mozartiane Nozze di Figaro, in una chiave modernamente spregiudicata (e Adams stesso non si trattenne dal definire epigraficamente, e giustamente, l’opera «a polyphonic love story in the style of a Shakespeare comedy»); un’interessante commistione di generi, come il jazz, il pop, il rock, la lirica, il blues, tutti declinati con grande originalità – «from minimalism to jazzy ballad, from blues to hard rock, from gospel to bebop, from pure a cappella vocal trios to improvisation, from acoustic sounds to the mirages of synthesised music: everything lends itself to the diversity of extrapolation» (G. Condé); una struttura simile al musical, ma che piuttosto sembrerebbe afferente all’opera lirica barocca privata dei recitativi. Il debito – mai, peraltro, taciuto – nei confronti di opere come Porgy and Bess di Gershwin e West Side Story di Bernstein è palpabile, quando non si concretizzi in vere e proprie citazioni.

Un’opera estremamente particolare, un song play sorretto da un’orchestra jazz accompagnata dal pianoforte e da strumenti elettronici. Alexander Briger mette bene in risalto l’inesauribile forza ritmica della partitura: le due sezioni introduttive agli atti ne sono brillante esempio. Del resto, Briger è specializzato in produzioni operistiche contemporanee: ha lavorato con Boulez e curato diverse prime assolute di compositori odierni. Ma ciò che rende lo spettacolo realmente godibile è la regia, mai stanca, né stantia. Giorgio Barberio Corsetti fa un ottimo lavoro: i cantanti sono tutti eccellenti nei movimenti, precisi e realistici. I caratteri sono ben delineati: la spavalderia da body-builder di Dewain, che ha un gran cuore; il dongiovannismo di David, redento dalla morte della sua vera amata; l’orgoglio dell’appartenenza a una comunità ghettizzata e l’isterica sessualità di Leila; la sfortunata e bella Consuelo; un omosessuale represso e irato con la vita, Mike; la bellissima “barbieforme” Tiffany, elegantissima, spregiudicata serva dei mass media; l’orgoglio vietnamita di Rick, bramoso di riscatto sociale. Sullo sfondo una Los Angeles che Barberio Corsetti rende con i colori sgargianti delle proiezioni, una città che cambia sovente volto (senza vergognarsene: i macchinisti sono parte integrante della regia). Palazzi multicolori, dalle forti tinte, fanno da scenario a una disincantata commedia, che vede finestre sempre aperte, crocchi di persone agli angoli, un ghetto colorito e oggetto di mire da parte delle autorità. Il tutto è animato da proiezioni che spesso ripetono in serie alcune immagini o creano volumi di pittura in animazione. L’effetto è appagante e intelligente. Poi, il coup de théâtre del terremoto (proprio da qui deriva il titolo: una frase pronunciata da un sopravvissuto al terremoto di Los Angeles del 1994, letta dalla Jordan in un giornale). E la resa scenica delle macerie, con una gran quantità di fumo, luci soffuse, i palazzi piegati e abbassati – lasciando una digradante discesa su ognuno – permette ai personaggi di operare quella «sorta di catarsi collettiva» ben enucleata, anche registicamente, da Barberio Corsetti.

Il cast dei cantanti è valevole e all’altezza. Soprattutto le voci maschili: la potente e cavernosa voce di Grant Doyle (Mike), quella penetrante e corposa di Daniel Keeling (Dewain) o il timbro argentino, ragguardevolmente modulato in un fraseggio inglese zoppicante da Patrick Jeremy (Rick). Più pop e meno potente la voce di Joël O’Cangha (David), che pure eccelle in interpretazione. Non tutte le voci femminili hanno pienamente brillato. Un problema su tutti: la defezione di Jeanine De Bique, che per un’indisposizione accetta di recitare la parte di Consuelo, ma fa cantare alternativamente due colleghe. Janinah Burnett canta una Leila convincente sul piano recitativo, ma meno su quello vocale: gli acuti sono fissamente intubati, periclitanti – una serata no? Straordinaria Wallis Giunta, una Tiffany incredibile, perfettamente nella parte e dalla voce spumeggiante e fresca.

Un’opera dal linguaggio non semplice, tradizionale e anti-classica allo stesso tempo, un non-musical che non sfocia mai in melodismo puro (sull’esempio di Porgy and Bess o West Side Story), ma scolpisce sempre qualcosa di confacente al caotico mondo di sentimenti che evoca.

foto Yasuko Kageyama