La luna nella caverna

 di Roberta Pedrotti

 

Intenso allestimento, per la sessantaseiesima Sagra Musicale Malatestiana, dell'Hyperion di Bruno Maderna, testo tanto volatile nella definizione teatrale, quanto denso di significati, affidato al gruppo italo olandese Muta Imago.

RIMINI, 26 settembre 2015 - Un'opera si può mettere in scena, tradurre in forma concreta teatrale. Ma può essere anche la messa in scena a costruire l'opera, a darle forma innestandosi in un processo creativo voluto eterno dall'autore, che fornisce il materiale, l'idea, ma non il progetto fisico, non un concreto disegno teatrale. O, meglio, lo sottintende sì che l'opera non paia semplicemente “aperta”, “in progress”, ma sia realmente viva, capace di rigenerarsi e prender forma ad ogni rappresentazione, che è, dunque, non una messa in scena ma sempre un evento artistico a sé.

Questo è l'ineluttabile destino di Hyperion che Bruno Maderna trasse dal romanzo di Hölderlin; per la sua natura stessa di parabola dell'eterna tensione dello spirito poetico.

Iperione, colui che sta al di sopra, è un epiteto del dio del Sole, ma è anche il Titano ribelle a Zeus padre dello stesso Helios, avo di Circe e Medea. È ribelle, è potente, ha in sé luce e mistero, è sempre proteso verso un'altezza irraggiungibile, la sua dimensione è superiore, come per l'albatros de Baudelaire, ma la sua ascesa è destinata a non toccare mai una meta. Al di sopra, sempre al di sopra è il suo destino solitario.

“Hyperion è il poeta che vive incompreso nel mondo e a sua volta non comprende il mondo circostante. Due mondi, pertanto, ognuno, un caos.” Scrisse Maderna del suo lavoro, un ciclo di sequenze strumentali con una grande aria – se così possiamo dirla almeno per il suo carattere solistico e per l'intenso lirismo della linea – sopranile. Una sorta di teatro di suoni invisibile e trasparente, privo di un'azione evidente, un teatro esclusivamente mentale che lascia un ampio margine di libertà, ma lancia anche una sfida insidiosa agli interpreti.

Proseguendo nel progetto pluriennale che affida titoli degli ultimi decenni o del repertorio barocco a gruppi di teatro contemporaneo e sperimentale, la Sagra Musicale Malatestiana ha chiamato ad allestire Hyperion Muta Imago, collettivo di ricerca attivo dal 2006 con base fra Roma e Bruxelles.

Ed ecco estremizzato l'esilio dell'infelice poeta greco del romanzo epistolare di Hölderlin, utopista deluso nella sublimazione della guerra d'indipendenza ellenica, errante eremita alla ricerca di un'eco di pace nella comunione con una natura ideale.

“Deve esserci un paese, un paese ideale, dove anche i poeti possano vivere, anche se anarchici.” Chiosava Maderna in occasione della prima veneziana del 1964, e Jonathan Schatz, il nostro Hyperion secondo i Muta Imago, il suo paese lo crea da sé, tracciando un cerchio che è mondo, grembo materno, caverna platonica. Qui il poeta costruisce se stesso in un'analisi spasmodica, in una continua misurazione, in un diario fisico e anatomico compulsivo. L'eco di questa ossessione prende forma in frammenti lontani, eco delle precedenti esecuzioni e incisioni dell'opera, condotte anche dallo stesso autore. Le registrazioni, gestite un'accurata regia sonora, si mescolano poi con il riverbero reale di un suono umano e presente, per quanto sognato: il flauto di Karyn de Fleyt e la voce sopranile di Hanne Roos, entrambe bravissime. L'ostinata, esclusiva, misurazione fisica di sé, e la conseguente inesausta e insoddisfatta tensione verso l'alto, trovano finalmente la quiete nel canto, nella poesia, nella natura, in un volgersi dell'anima all'arte che finalmente permette a Hyperion di essere ciò che è il suo nome “al di sopra”. Il disco cangiante, l'immensa luna di Saffo e Leopardi, un'infinita volta stellata, specchio, mondo, utopia, finalmente si lascia accarezzare, finalmente si riunisce al poeta. E questi vi traccia, mentre risuonano i versi di Hölderlin intonati dalla Roos sulle note di Maderna, semplicemente una figura umana. Un disegno nella sabbia celeste, una traccia di sé nella materia dei sogni. L'ossessione del numero con cui misurare ogni respiro, ogni istante, si è liberata in un tratto ingenuo, nell'autoritratto simbolico consegnato, finalmente alla dimensione ideale, al paese dei poeti e della libertà. Allora Hyperion si dissolve, forse passa un istante, forse trascorrono decenni, un lampo o un'eternità è la stessa cosa, perché uomini comuni, in tute da speleologi, riscoprano l'antro dell'artista, l'enigma della sua traccia nel mondo, verso un altro mondo.

Le luci artificiali dei caschetti degli speleologi si allontanano, si affievoliscono i bagliori degli astri, calano le tenebre e pian piano torna l'illuminazione quotidiana nell'aspra, suggestiva nudità della Sala Pamphili del complesso Agostiniano. Dal paese ideale e anarchico della poesia siamo ancora nel paese reale, ma pervasi da un'inquieta tensione, quella del poeta proteso verso l'alto che dalla sterile misurazione fisica giunge alla sintesi dello spirito libero.

“Per non cadere in futuro in una forma di tecnocrazia, l'unica possibilità che ci resta è di valorizzare l'uomo, la persona, l'individuo; non soltanto l'uomo come quantità, come massa […]Deve esserci un paese, un paese ideale, dove anche i poeti possano vivere, anche se anarchici.” (B. Maderna, 1964)

foto Filip van Roe e Luigi Angelucci