La dama e la gitana

 di Luis Gutierrez

Anna Netrebko e Dolora Zajick dominano incondizionatamente Il trovatore al Metropolitan, valorizzate dall'allestimento di David McVicar, particolarmente attento alla centralità delle figure femminili. La produzione è, però, segnata soprattutto dal ritorno sulle scene di Dimitri Hvorostovsky, reduce dal primo ciclo di cure per un tumore celebrale e pure capace di offrire una prova maiuscola.

NEW YORK 3 ottobre 2015 - L'attuale produzione del Trovatore al Met ha esordito nel 2009 e la recita del 3 ottobre è stata la quarantesima, la seconda trasmessa in alta definizione, a dimostrazione dell'altissima popolarità del titolo verdiano. L'allestimento con il quale David McVicar ha debuttato al Met colloca l'azione dalla guerra civile del XIV secolo alla campagna napoleonicon Spagna all'inizio del XIX. Questa alterazione cronologica non va contro lo spirito dell'opera, ma anzi inserisce un nuovo elemento drammatico.

Infatti, la produzione è focalizzata sull'idea di Verdi, che vedeva in Azucena il personaggio principale della tragedia, e di Antonio García Gutiérrez, autore di El trovador, che concentrò la sua attenzione sul risveglio della sessualità di Leonora. Cioè, le donne sono i personaggi principali di quest'opera in cui i fratelli, rivali in amore e in armi, formano il contesto in cui si sviluppano le loro passioni. Ogni atto è, in effetti, dominato in alternanza da una di loro: primo e terzo da Leonora, secondo e quarto da Azucena.

Su questa base drammatica la produzione di McVicar si sviluppa in modo assai efficiente. La scenografia disegnata da Charles Edwards assolve al suo compito di presentare gli otto quadri dell'opera muovendo alternativamente i due segmenti in cui è diviso il palco, modificando la decorazione della parete più alta in ogni occasione. Durante ogni scena che prevedesse i gitani si vede sul fondo una serie di persone uccise per impiccagione o crocefissione, e quando è il fuoco a dominare si presenta come un palo bruciato che rimanda chiaramente a un grande simbolo fallico.

I costumi curati da Brigitte Reiffenstruel è molto accattivante per quel che concerne il Conte di Luna e i suoi uomini, nondimeno appropriato per i gitani al seguito di Manrico; Azucena è caratterizzata come una vecchia zingara tormentate. Anna Netrebko ha deciso di usare costumi differenti da quelli originali per Leonora, desiderio soddisfatto dalla direzione del Met. Le luci di Jennifer Tipton sono assai interessanti, sottolineando le situazioni drammatiche con un coinvolgente chiaroscuro. La coreografia di Leah Hausman è mediocre e non sfrutta le opportunità offerte dai cori principali, Le gitani non ballano quando è il loro momento e alcune prostitute trescano con i soldati come se ballassero. Paula Williams ha ripreso la regia nel rispetto dell'originale e controllando adeguatamente l'azione.

Dolora Zajick “è” la Azucena del Met. Ha debuttato con questo ruolo nel 1988 e da allora non c'è stato chi abbia interpretato nel canto e nell'azione una gitana come quella quella che ripropone da ormai ventisette anni. Trasmette sconforto, odio, terrore per il fuoco, ma non pazzia. Nel duetto del secondo atto con Manrico semplicemente si è “mangiata” Yonghoon Lee.

Anna Netrebko,nel costume di suo gradimento, ha offerto a sua volta una splendida serata con la sua prova. La sua voce al momento è ideale per Leonora e le imprime quella sensualità anelata da García Gutiérrez, anche se, come puro esempio del Romanticismo spagnolo, fallirà tre volte, una non entrando in convento, un'altra nell'interruzione delle nozze e infine morendo. Ha cantato in modo ammirevole “Tacea la notte placida” e, benché mancassero le terzine nella cabaletta, ha conferito alla coloratura una brillantezza speciale in “Di tale amor”. Nel terzetto seguente ha mostrato il suo volto drammatico e nel finale secondo, in cui l'intervento di Leonora è decisamente ridondante, ha fatto sì che l'applauso dopo l'ultimo “Sei tu dal disceso o in ciel son io con te?” fosse destato dalla qualità dell'interpretazione e non dalla conclusione dell'atto. L'aria del quarto atto è un vero tour de force per il soprano, poiché tanto il cantabile ”D’amor sull’ali rosee” quanto la cabaletta “Tu vedrai che amore in terra” sono di grande difficoltà, mentre il tempo di mezzo che le divide è, a mio parere, il più bello di tutta l'opera romantica italiana: mi riferisco al “Miserere”, in cui la Netrebko ha cantato meravigliosamente e con profonda verità. Posso affermare che la russa abbia compiuto il passaggio da lirico leggero a lirico con grande successo, il che, unito al suo innato talento di attrice drammatica, farà di lei una delle figure dominanti dell'opera nei prossimi dieci anni, indipendentemente da quel che può aver ottenuto grazie a un lavoro, non indifferente, di marketing e pubbliche relazioni. Questi strumenti non producono effetti duraturi se il “prodotto” non è di alta qualità e sono convinto che, proseguento con questa metafora, Anna Netrebko lo sia.

Dmitri Hvorostovsky è un grande professionista o un irresponsabile. Non voglio essere franteso. Presentarsi al Met in un ruolo vocalmente tanto impegnativo, così come musicalmente affascinante, dopo pochi mesi dall'annuncio di un tumore celebrele ed essere stato, o stare tuttora, in cura, è impressionante. Lo è ancor più aver offerto una delle migliori recite, se non la migliore, del Conte di Luna dal vivo. Durante il terzetto del primo atto è stato fantastico come ha esclamato “Un accento proferisti che a morir lo condannò!” e parimenti fantastico il canto di “Il balen del suo sorriso” cui ha aggiunto maggior virilità in “Per me, ora fatale”. All'ingresso in scena il pubblico lo ha accolto con un forte applauso, cui il siberiano ha risposto con un lieve cenno del capo, ma al termine dell'opera l'accoglienza è stata fragorosa e prolungata e, come nelle rcite precedenti, i professori d'orchestra lo hanno omaggiato con fiori bianchi che il cantante ha raccolto in mazzolini per ciascuna delle sue colleghe nella compagnia. Al chiudersi del sipario, dopo lunghi applausi, Hvorostovsky appariva visibilmente provato dalla mia posizione in sala.

Yonghoon Lee ha incarnato un Manrico mediocre nella recitazione e cantato senza troppa energia; la sua voce risultava poco udibile nel terzetto del primo atto, spariva a tratti nel finale secondo e non ha brillato nell'insidiosa “Di quella pira”, di cui ha omesso la ripresa dopo un Do acuto non molto limpido. È stato l'anello debole di una catena per il resto composta da anelli di titanio. Non abbiamo un Manrico?

Stefan Kocán ha cantato un adeguato Ferrando, che sarebbe stato migliore se avesse cantato in italiano. Dico questo perché non si è compresa una sola parola. È chiaro che per essere un grande cantante ci vuole qualcosa in più di una voce educata e una disinvoltura scenica: una di queste la padronanza delle lingue.

I comprimari, Maria Zifchak come Ines, Edward Albert come vecchio zingaro, Raúl Melo come Ruiz e David Lowe come messo, hanno offerto una prova convincente.

Marco Armiliato in una serata all'opera garantisce sempre che non avremo disastri, ma che non avremo nemmeno grandi raffinatezze in orchestra. Infatti è un convinto sostenitore del discorso musicale gestito per stimolare l'applauso per i cantanti che, naturalmente, l'adorano. La sua prova è stata un prevedibile flutturare fra il genio, la correttezza e la volgarità del Verdi “di mezzo”. Il coro si è comportato assai bene.

Ho una sola domanda: perché, dal suono quando erano colpite dai martelli nel coro dei gitani, le incudini parevano di cartone?