I volti di Norma

 di Giovanni Chiodi

Cecilia Bartoli ripropone la sua intepretazione della sacerdotessa d'Irminsul nel collaudato allestimento firmato da Caurier e Leiser al fianco del Pollione eccellente di John Osborn e ribadisce il valore della sua ricerca per un teatro musicale sempre vivo e intelligente, fuori dagli schemi, senza rete e senza schermi.

Zurigo, 13 ottobre 2015 - Tra le benemerenze dell’Opera di Zurigo, si deve annoverare anche quella di accogliere nella stagione di quest’anno la Norma di Cecilia Bartoli, prima migrazione di una produzione che ha preso avvio nel 2013 al Festival di Pentecoste di Salisburgo (di cui è geniale direttore artistico la stessa Cecilia Bartoli) ed è stata poi riproposta nell’ultima edizione estiva. Benché non sia una novità, e chi è attento osservatore dell’attualità abbia avuto modo di familiarizzare con l’approccio della Bartoli fin dal primo incontro con quest’opera avvenuto a Dortmund nel 2010, e poi nelle varie tappe, compreso un disco premiatissimo, l’impatto di questa Norma - e di questo spettacolo - si è riprodotto intatto anche nella sala zurighese. È l’irresistibile fascino di una versione che dà ragione a chi crede a un teatro d’opera che si rinnova continuamente e non si fissa immobile nella contemplazione dei modelli del passato; il segno di un’operazione che ha cambiato le coordinate usuali di lettura di questo capolavoro. Una Norma fuori dagli schemi: senza rete e senza schermi, dove la filologia va a braccetto con il teatro e non è fredda riproposta museale. Chiunque abbia assistito alle recite ha potuto agevolmente rendersi conto di cosa significa essere artisti completi, capaci di mettere canto e recitazione al servizio delle idee. Ed essere mostruosamente bravi nel realizzarle e nel farle passare all’ascoltatore, convincendolo che bastava in fondo vedere le cose da un’altra angolatura per cogliere l’essenza di questo personaggio complesso, che è il più impegnativo dell’intero repertorio perché è una sintesi originale di tutta l’opera seria precedente e richiede quindi all’interprete una versatilità senza confini. Perché Norma non la risolvi nell’uniformità, ma nel continuo variare dell'accento, nelle sfumature infinitesimali, nell’uso creativo di tutte le risorse del belcanto. Norma non è a senso unico, ma sono tanti profili insieme, come accade a tutti gli esseri umani. Nell’interpretazione di Cecilia Bartoli, che ha completamente rinnovato la vulgata legata a quest’opera, si riflettono tutti questi volti. Donna tradita, ma disperatamente amante. Madre pentita, ma visceralmente attaccata ai figli. Donna impegnata nella lotta politica, ma spudoratamente innamorata del nemico. E c’è anche un aspetto spesso dimenticato, che è quello della figlia. Un intreccio di forza e fragilità, rappresentato però con autentica semplicità e genuinità. Una Norma restituita a una dimensione umana e non trascendente, ma pur sempre, e forse a maggior ragione in questo contesto, dal volto tragico e di forte passione mediterranea. E di camaleontica bravura: capace di passare dall’estasi controllata di "Casta diva" al virtuosismo funambolico di “Ah bello, a me ritorna”, dal furore del finale del primo atto alla calma tesa e lancinante del “Teneri figli”.

Prendiamo “Casta diva”. Cantata da Cecilia Bartoli è effettivamente ciò che Bellini aveva in mente: un rituale di pace in un clima di guerra. Una preghiera impossibile, che pure deve centrare l’obiettivo. Norma sa che deve convincere all’inattività chi convinto non è. E allora deve trovare i toni più dolci, più insinuanti, più sereni possibili (anche prendendo per mano il padre riottoso).

Prendiamo un secondo esempio: i due duetti con Adalgisa. Sono le due facce della stessa medaglia, dell’amore che unisce e divide. Il primo rievoca la ferita, la passione carnale per Pollione, il secondo l'amore materno per i figli. Norma canta il secondo duetto accarezzando continuamente il figlio appena nato.

Prendiamo un terzo momento, che forse è il più alto di questa interpretazione. Norma ama Pollione alla disperazione, ed è questa disperazione che alla fine le impone di rivelarsi come l’amante dell’odiato nemico. Tutto avviene in pochi istanti. E Norma quella confessione, che le costerà la vita, non la indirizza ai suoi compagni, ma proprio a lui, che legato alla sedia non ha ancora capito. A seguire, Norma bacia Pollione davanti a tutti gli astanti. Mai, con tanta palpabile e vera sensualità, era risultato evidente il legame tra i due: ed ecco che “Qual cor tradisti” diventa un’appassionata dichiarazione d’amore. Del tutto naturale, a questo punto, diventa la salvezza dei figli a tutti i costi. Anche in questo caso, come in “Casta diva”, Norma sembra combattere una battaglia persa, e la deve vincere ancora una volta misurando il tono delle parole nell’ultimo colloquio con il padre. Ma ora la posta in gioco è ancora più alta: deve chiedere pietà e lo fa con i toni più strazianti che si possano immaginare e non con un eloquio altisonante e solenne, ma con gli accenti più toccanti di una figlia che implora il padre, quasi tornando bambina. Quando si arriva a tali livelli di invenzione vocale e di abilità scenica, i paragoni difettano.

Lungi dall’essere un lavoro solo individuale, la chiave vincente di questa Norma sta anche nell’armonica intesa con gli altri compagni di lavoro. John Osborn prima di tutto, mai si fa ammirare come in questa occasione. A dare la replica a una simile Norma abbiamo così un Pollione di pari statura e livello. Voce estesa, duttile, legato impeccabile, e uso sapiente della mezzavoce. Tutto è incanalato in un fraseggio sottile e giocato anche sul filo del rasoio di piani perfettamente emessi. Ma non è un cantarsi addosso. Pollione è un predatore conscio della sua mascolinità: ma come si trasforma nel secondo atto è tutto da vedere. Tanto più che la metamorfosi avviene nell’ integrale immobilità dell’attore, letteralmente legato alla sedia.

È notevole anche l’Adalgisa di Rebeca Olvera. Il contrasto tra l’adolescenziale freschezza di una ragazza e la voce più scura e carnale di una donna che ha già vissuto emozioni forti, che anzi si è spinta oltre il limite, si realizza pienamente, nel pieno rispetto delle intenzioni di Bellini.

Meno a fuoco vocalmente, in questa edizione, l’Oroveso di Peter Kalman: ma sostituire Pertusi era impresa francamente non facile. Ottimi invece Reinaldo Macias e soprattutto Liliana Nikiteanu.

Sulla regia di Caurier e Leiser è stato detto molto, al tempo delle recite a Salisburgo. Per conto mio, aggiungo che è forse la sfida maggiore che questi due straordinari artisti abbiano dovuto affrontare. Molto più della portentosa messinscena dell’Otello di Rossini. Come raccontare, infatti, credibilmente una storia del genere? La vicenda viene spostata alla Francia occupata della seconda guerra mondiale, Norma è una donna della resistenza, e il tutto avviene in tre interni, che non sono dimore sontuose o foreste lussureggianti, ma più semplicemente stanze di una scuola, ritrovo dei resistenti. E tutti i dettagli di una regia capillare si riflettono nel canto. Una regia crudamente realistica. Ad esempio, la marcia che precede l’ingresso di Norma non è la solita sfilata, ma un ben più macabro pestaggio: sicché quando Norma entra, le frasi iniziali del recitativo “Sediziose voci, voci di guerra” non cadono per una volta nel vuoto. E quando Norma confessa a tutti il suo amore per Pollione, la rivelazione è suggellata da un sensualissimo bacio tra i due.

La direzione è affidata a Giovanni Antonini, che procede con una lettura totalmente anticonformista, se si guarda ai tempi e alla dinamica, ma largamente condivisibile e realizzata con estrema maestrìa: sono infatti innumerevoli le nuove prospettive aperte. In un’operazione così complessa e curata in ogni minimo dettaglio, il pregio maggiore da sottolineare è la simmetria tra concertazione e palcoscenico. Il complesso “La Scintilla” suona con la flessibilità e l’energia che gli è propria, malgrado qualche smagliatura. Il Coro della Radiotelevisione Svizzera di Lugano (scelta felicissima) è eccellente: ha oltre tutto una dizione chiarissima e s’impegna benissimo anche nella recitazione. Si esce da teatro con la sensazione di aver vissuto una serata unica.