di Giovanni Chiodi
Affascinante elaborazione teatrale a cura dell'emergente Gianmaria Aliverta per un dittico Janáček-Poulenc fuso in un'unica narrazione sorprendentemente efficace. La qualità musicale è garantita, nella prima parte, dal piano forte di Claudio Marino Moretti, nella seconda dalla bacchetta di Francesco Lanzillotta, nonché dalle voci di Leonardo Cortellazzi e Angeles Blancas Gulin.
Venezia, 10 ottobre 2015 - Sentirle insieme è più unico che raro. Ancor più raro vedere rappresentato in scena Il diario di uno scomparso (Zápisnik Zmizelého) di Janáček, in versione originale con pianoforte, come forse era destino di questo lavoro singolare. In coppia con La voix humaine di Poulenc, che di primavere ne ha più di cinquanta e gode di un successo planetario, l’esperimento appare ancora più meritevole del crisma dell’originalità. Questa proposta, per di più, intercetta una vocazione forte del Teatro La Fenice sia per Janáček (lo splendido Věc Makropulos del 2013, con la regia di Carsen e Ángeles Blancas Gulín come Emilia Marty, ma anche Šárka nel 2009 e lo stesso Diario nel 1983), sia per gli accostamenti di opere brevi, spesso di non frequente ascolto. E il Teatro Malibran, nel quale l’evento si è svolto, garantisce quella presa più diretta e quella dimensione più ravvicinata con il palcoscenico, indispensabile per due titoli che sono fondamentalmente incentrati su due monologhi che, malgrado la distanza della scrittura musicale, hanno entrambi radici autobiografiche e sono quasi speculari nel mostrare due facce dello stesso problema.
Nell’allestimento veneziano, affidato al talento di un regista promettente e in crescita come Gianmaria Aliverta, che già questa estate aveva messo insieme con pochissimi mezzi (ma tante idee) un efficacissimo allestimento extra ordinem della Incoronazione di Poppea [leggi la recensione] al Festival di Martina Franca, ha prevalso la ricerca di un filo rosso che legasse le due composizioni. Cosa anche questa non usuale, ma non così peregrina come si sarebbe indotti a pensare: ricordo una produzione di Cavalleria e Pagliacci (il dittico dei dittici) a Hannover nel 2005 in cui il regista Calixto Bieto tentò qualcosa di simile, su basi però totalmente diverse. Qui infatti è proprio la stessa vicenda, sentimentale ed esistenziale, ad essere raccontata, in due parti: un prima e un dopo, l’antefatto e il suo tragico epilogo. Elle, la disperata protagonista della Voix humaine, è la stessa donna abbandonata da Jan, che l’ha lasciata per Zefka, e chi legge il diario è il poliziotto incaricato di risolvere il caso del suo omicidio. Si scoprirà poi che Elle ha ucciso il suo uomo e che la straziante telefonata (al cellulare) con lui avviene solo in modo virtuale, sul filo delirante e maniacale della ricostruzione dei frammenti di un amore finito male, sulle sedie di un freddo ospedale in cui Jan giace ormai defunto e dove si consumerà anche il suicidio della donna, una volta catturata dalla polizia, sull’ultimo accordo dell’opera. L’operazione suscita molto interesse. Già è originale l’idea di collegare le due opere. Ma poi il regista ha lavorato seriamente sulle convergenze e sui tanti spunti offerti dai due testi, che non appaiono così slegati tra di loro come a prima vista potrebbe sembrare. Ne è uscito uno spettacolo stimolante, nuovo, pur nell’economia delle risorse materiali, che fa discutere e che dal punto di vista teatrale funziona e cattura lo spettatore. Anche se per questo è stato necessario decontestualizzare Il diario di uno scomparso, dato che Jan non appare come un contadino represso dalla morale religiosa e sociale ferrea di un villaggio, che decide di realizzare per la prima volta le sue pulsioni sessuali e la sua autonomia sfidando le regole, ma come un giovane agiato (benissimo interpretato, tra l’altro, dal mimo Francesco Bortolozzo), che lascia la moglie (forse sposata controvoglia) con la quale ha un rapporto inquadrato nei binari della routine. Il tutto avviene in un elegante appartamento dei nostri giorni (con il letto sullo sfondo) e il misterioso richiamo della seduzione non proviene da una zingara, ma da una ragazza che rappresenta un modello femminile opposto e più libero rispetto alla moglie. Gli elementi centrali del Diario, come la scoperta dell’amore e la ribellione, sono quindi presenti in misura evidente. A parte l’abilità con cui tutti recitano con bravura questo copione, frutto di un lavoro vero fatto con gli artisti, vale la pena di rilevare che tutto confluisce logicamente verso La voix humaine, alla quale si arriva già carichi di tensione (come in un thriller che si rispetti), così che le parole del monologo assumono un senso più pregnante, avendo già visualizzato precedentemente ciò che il testo si limitava a suggerire.
Dal punto di vista musicale, questa operazione convince, anche perché è sorretta da un’esecuzione di ottimo livello. Claudio Marino Moretti accompagna con sensibilità al pianoforte il canto dei solisti (Angela Nicoli, Loriana Marin, Gabriella Pellos, Alessandra Vavasori), su cui emerge Leonardo Cortellazzi, che assolve l’impegno più consistente del narratore con buon dominio del settore acuto. Francesco Lanzillotta concerta in modo tecnicamente sicuro ma anche personale un testo così frequentato come La voix humaine, con un equilibrio impeccabile tra gli sbalzi di tensione e lirismo, tra il calor bianco di certe impennate orchestrali e l’elegante sfinimento di altri passaggi, sintesi lucidissima di una passione divenuta criminale, che non ha nulla di sentimentale, ma neanche di freddo e di rigido, data l’ampia varietà dinamica e di colori al servizio del canto. Ángeles Blancas Gulín non è solo un’attrice che con la sua sola presenza riempie in modo carismatico il palcoscenico: qui è chiamata a dar voce a una nevrosi che è ben più che l’esito di un amore fallito, essendo anche lo specchio di una mente che ha tragicamente perduto ogni contatto con la realtà. Lo fa con totale e impressionante immedesimazione, con la consueta estrema cura dell’accento, e mediando l’eccesso di concitazione che questa lettura talora comporta.
foto Michele Crosera