di Stefano Ceccarelli
L’opera d’apertura della nuova stagione della Fenice veneziana, l’Idomeneo di Wolfgang Amadeus Mozart, rispecchia una scelta ambiziosa, come pure ambiziosi sono il progetto e l’architettura generale della stagione 2015/2016, che a fronte di un’attenzione all’utenza teatrale nazional-popolare (ben tre riprese della Traviata, oltre a Il barbiere di Siviglia, L’elisir d’amore, Madama Butterfly e Norma) vuole accontentare anche qualche palato più raffinato: s’apprezzeranno, in tal senso, proposte come Le cinesi di Gluck, La Favorite donizettiana e Il signor Bruschino di Rossini. L’Idomeneo, dicevamo: opera d’argomento mitologico, che si presta a numerose possibili letture. Alessandro Talevi propone una regia che ha un principio nobile, quello della riflessione su temi alti (come le vittime della guerra e l’integrazione), e una realizzazione complessivamente – ma non sempre – interessante. Jeffrey Tate ci restituisce una partitura/affresco sottolineandone gli snodi di grande potenza e energia. Il cast vocale è abbastanza buono, con Gunnell, Bacelli e Sadovnikova in testa.
VENEZIA, 22 novembre 2015 – La Fenice veneziana inaugura la nuova stagione con un’opera monumentale, un elaborato e coltissimo bassorilievo canoviano: l’Idomeneo re di Creta di Wolfgang Amadeus Mozart. Opera che la Fenice ben conosce: la tenne a battesimo italiano il 2/10/1947, proprio durante una Biennale (come pure, del resto, quest’anno). È un peccato che l’Idomeneo abbia subito, come molte altre opere, un oblio realmente immotivato. Ma s’è ripresa nel ‘900: le coeve versioni di R. Strauss e Wolf-Ferrari per il centocinquantesimo dalla première (1931) diedero via a una serie di altre riprese in cui si privilegiò la versione viennese con Idamante tenore (1786) piuttosto che quella della première (1781), oggi praticamente imperante, in cui Idamante era il castrato Dal Prato. Idomeneo, anzi, è uno spartiacque nella produzione mozartiana. «Ma la maturità sbocciò nell’81, nell’amplesso della feconda cultura di Monaco e della sua eccezionale compagine orchestrale, ed ebbe il nome di Idomeneo, re di Creta. […]. E arie lunghe ed elastiche, cori impressionanti, clarinetti patetici e tromboni evocativi, un mirabile quartetto che dice “Andrò ramingo e solo” popolarono la vicenda del re di Creta reduce da Troia» (P. Mioli, Storia dell’opera lirica). Vedere in un cartellone teatrale Idomeneo, opera bellissima e che richiede il massimo spiegamento di forze per una decorosa mise en scène, è una somma gioia. Vederla quando il mondo occidentale è in tale crisi, aiuta e conforta. Il teatro La Fenice, peraltro, non s’è dimenticato delle vittime dei tremendi attentati parigini e, in particolare, di una figlia di Venezia tragicamente perita in quella notte fatale: a degna commemorazione vengono eseguiti gli inni italiano e francese.
A tenere la bacchetta è Jeffrey Tate, eccellente mozartiano. La sua direzione è incisiva, di una freschezza impressionante: il gusto, la lucidità musicale sono più vive che mai. Una direzione che non legge con le carezze di un Böhm la partitura, ma con incisività, pur non sacrificando la bellezza di nessuna nota. Sorregge perfettamente le voci (anche se, a tratti, pare soccombano alla rigogliosa maglia orchestrale); porge tutti i sentimenti della musica avendo ben chiaro l’ethos di estrema purezza neoclassica dell’architettura formale dell’opera: su tutti valga l’esempio della magistrale concertazione del quartetto del III atto, vero culmine emotivo dell’opera. L’orchestra, pur non sempre brillando per pulizia sonora e precisione, offre una buona performance.
Ekaterina Sadovnikova canta un’ottima Ilia, forse la migliore interpretazione della serata. La sua voce espressiva, vibratissima (chiudendo gli occhi sembra di ascoltare la Cotrubas), capace di recitativi scolpiti e sul fiato, le consente una tenuta perfetta per tutto il corso dell’opera: è, inoltre, convincente attrice. Ci dimostra tutto questo già in una struggente interpretazione di «Quando avran fine omai - Padre, germani, addio!» (I), dove le caratteristiche musicali di dolcezza, risolutezza, terrore, amore di Ilia sono tutte compendiate e spaginate dall’interprete. Nostalgia e speranza di futura felicità si trovano tutte in «Se il padre perdei»; ma il vertice di soffuse dolcezze, di trepidanti attese amorose, è in «Zeffiretti lusinghieri» (III). Monica Bacelli, che possiede squillo, esplosività e potenza soprattutto nel registro medio-alto, canta un Idamante fresco e trascinante. Appare, però, troppo poco naturale dovendo vestire i panni di un uomo; ma, musicalmente riesce a esprimere l’indefesso amore per Ilia («Non ho colpa, e mi condanni») e gli accenti più mesti per l’incomprensibile (per lui) rigore del padre. Il duetto con Ilia, «S’io non moro a questi accenti» (III), dimostra tutto il loro affiatamento: riescono a creare qualcosa di magico. L’Idomeneo di Brenden Gunnell ha una statura vocale brunita, baritenorile, non classicamente bella né particolarmente mozartiana; ma Gunnell sopperisce con una presenza scenica notevole e con doti di modellazione volumetrica della voce. Certo, quando deve giocare per lo più d’effetto, come nella cavatina «Vedrommi intorno» (I), ha miglior agio che se deve affrontare un virtuosismo più fiorito, sul fiato e spingendo, come nella seconda sezione di «Fuor del mar ho un mar in seno» (II), dove ha dei problemi di sgranatura del suono. L’Elettra di Michaela Kaune è la più debole delle quattro voci principali: una recitazione esagerata, a tratti grottesca, ne appiattisce e semplifica il carattere. La sua performance ha un andamento sinusoidale: la sua voce metallica si intuba troppo facilmente in acuti fissi e duri, con un’emissione poco naturale. Convince nell’ultima aria, la celebre «D’Oreste, d’Aiace» dove tira fuori la voce e si lascia trascinare; ma nella cavatina, «Estinto è Idomeneo? - Tutte nel cor vi sento» quando deve affrontare la scrittura musicale isterica delle strofette di settenari mortifica i giochi allitteranti con i soliti problemi tedeschi di pronuncia italiana. Anicio Zorzi Giustiniani è un Arbace ottimo scenicamente, ma meno vocalmente: delle sue due arie, certamente «Se colà ne’ fati è scritto» è meglio interpretata. Magnifico il coro de La Fenice: staglia un’interpretazione potente, delibando ogni accento della sua parte, da quelli più gioiosi, festivi («Nettuno s’onori» I, «Scenda Amor, scenda Imeneo», III), a quelli più mesti, atterriti – magistrale il sottovoce, in smorzando, «Corriamo, fuggiamo» (II).
La regia di Alessandro Talevi è certamente degna di interesse. Fin dall’inizio. Protetta da un velatino, con inquadrature variate dal sapiente uso di un sipario rigido nero (che funziona come un diaframma fotografico, permettendo veloci cambi di scena), si consuma un’orgia fra i Cretesi, mentre al proscenio Ilia deplora la fine dei Troiani. Da lì esce l’amato Idamante. Cosa vuol dire? Forse Talevi ci dice che la punizione che Nettuno infliggerà al popolo cretese è per la loro dissolutezza? Idomeneo stesso tenterà per un attimo di sedurre Ilia, che lo sta appellando come novello suo padre. Talevi vuole mandare un velato messaggio: la società cretese è giunta alla consunzione morale; anzi lo è la società greca: Elettra ne è l’esempio. Talevi carica la recitazione di tutti i personaggi, tranne di Ilia, che rimane la dame blanche simbolo di purezza. Uno dei chiari cardini registici è proprio il tema dell’oppressione dei vinti e della fallacia della vittoria – riflessioni di estrema attualità. L’unica via possibile, ci dice Talevi, è l’integrazione: Idamante e Ilia, il loro fruttuoso matrimonio. Quei personaggi ossessionati dal potere, Idomeneo e Elettra, sono destinati a soccombere: Elettra maneggia voluttuosamente la corona regale proprio mentre canta l’unica sua aria d’amore («Idol mio, se ritroso», II); Idomeneo si defila mesto nel festante finale d’incoronazione di Idamante. Questa teoria registica, a priori assai ammirevole, non trova sempre adeguata realizzazione: per esempio la volontà di rappresentare i giardini della reggia di Idomeneo con una fila di abiti stesi insozzati di sangue o quella sorta di cena di Veronese ambientata in un ristorante greco (con tanto di spaghetti ai frutti di mare…) per i festeggiamenti del ritorno d’Idomeneo. Così come la scena mimica con delle ballerine che accompagnano buffamente Elettra all’approdo del porto. Per fortuna, i buoni momenti hanno sorpassato quelli scadenti: il coreografico arrivo di Idomeneo a Creta, dove un solo parapetto ligneo serve a significare la nave (con chiaro riferimento all’iconografia nautica nel vasellame greco) e contemporaneamente la spiaggia; o la scena dell’assalto del mostro, dove Talevi fa vedere il coro avvinto da spire di tubi di plastica industriali – una chiara allusione al Laocoonte vaticano; o la struggente scena dell’unzione dei cadaveri uccisi dal mostro. Le scene sono certo singolari. Justin Arienti ha creato una sorta di museo/biblioteca con delle teche e dei reperti fossili marini che costituisce il nerbo della scenografia (tutto il resto è creato con dei fondali neutri): c’è uno strizzar d’occhio a Atlantide e i costumi (Manuel Pedretti) vanno in quella direzione (si pensi ai dreads bianchi che alludono anche alle parrucche stile Luigi XVI). Assai bella l’intuizione di rappresentare il mare con dei rulli orizzontali, che danno l’impressione di dinamicità e di antichità. Al contrario dei Cretesi, solo i Troiani sono rappresentati in sudici abiti contemporanei, a renderli similitudine dei presenti profughi. Ancora l’attualità entra di peso nel mito.
foto Michele Crosera