Dioniso l’onnipotente

 di Stefano Ceccarelli

La nuova stagione (2015/2016) del Teatro dell’Opera di Roma si apre con il capolavoro di Hans Werner Henze: The Bassarids. Una scelta coraggiosa, audace e in controtendenza al classicismo imperante dei teatri italiani e mondiali, che prescelgono opere d’apertura di più consolidata fama presso il pubblico. Non si dimentichi, inoltre, che dopo I Was Looking e Mahagonny, The Bassarids è il terzo titolo operistico novecentesco consecutivo: operazione veramente lodevole, anche e soprattutto per la riscoperta di un patrimonio che, paradossalmente, stiamo obliando con uno sguardo unidirezionalmente rivolto solo al passato precedente al ‘900. Il direttore Stefan Soltesz fa un ottimo lavoro, dirigendo assai bene questo arazzo al cardiopalma. La regia di Mario Martone, esoterica, cruda, viscerale, è un’eccellente interpretazione della trama euripidea. Applausi troppo tiepidi non rendono piena giustizia a una produzione riuscitissima.

ROMA, 27 novembre 2015 – Si respira aria di novità al Teatro dell’Opera di Roma. Qualche ritocco architettonico (una nuova postazione per la biglietteria e l’installazione di nuovi schermi) giova non poco all’estetica del maggior teatro romano: è la ventata di novità, l’aria di cambiamenti strutturali che da qualche tempo si percepisce entrando in quel teatro. Ma la novità risiede, soprattutto, nelle scelte fortissime del direttivo operistico: aprire la stagione con un capolavoro del ‘900, The Bassarids di Hans Werner Henze, opera d’effetto, evocativa, che ha il pregio di una scrittura limpida, che si lascia ben capire e amare – ma, pur sempre, opera ignota al grande pubblico. Affidare l’allestimento di The Bassarids, poi, a una regia viscerale, istintiva, esoterica, cruda come quella scelta da Mario Martone è operazione intelligente, ma rischiosa. I benpensanti saranno stati scandalizzati da una tale lettura – memore del pasoliniano diritto allo scandalo e piacere all’essere scandalizzati: orge, cannibalismi, riti dionisiaci ammantati di satanismo, a-storicità della mise en scène, con elementi moderni (un Penteo/dittatore molto vicino a talune immagini contemporanee; l’esercito con tanto di mitra ecc.) misti a simboli antichi (altari, fuochi sacri), che si inseriscono in un universo conturbante e perturbante allo stesso tempo. Le scene di Sergio Tramonti concorrono proprio a questo scopo. Grandi pareti di specchi costituiscono una sorta di reggia-gabbia in cui il destino infausto dei tebani sembra già preannunciato. Foriero ne è l’avello di Semele, che campeggia sotto una colonna con un fuoco acceso. Elementi, appunto, perturbanti sono l’uso delle luci (Pasquale Mari) e il piano sotto il palco – aperto per buona parte dell’atto unico – il regno di Dioniso. Il dialogo fra esterno e mondo sotterraneo, fra dionisiaco e reale, costituisce il trait d’union della regia, in sostanza il fil rouge della regia martoniana. Dal sottopalco emergono sensuali mani, corpi nudi con corna sataniche sulla testa, e si intravede dallo specchio della parete un’orgia (intuizione geniale di Martone, che riflette la sua riflessione sulla reticenza a guardarsi dentro – eccolo l’elemento conturbante); Tiresia, Agave vi entrano, per penetrare i segreti di Dioniso. Impatto straordinario ha avuto la scena dello sbranamento di Penteo da parte delle menadi, di Agave e Autonoe, mentre altre figuranti sbranavano i soldati di Penteo accorsi a disperderle e catturarle. Martone sa giocare bene con il coro e gli attori: all’immobilità tragica delle scene della reggia – forse, unico neo, un po’ troppo statico il primo quadro – corrisponde la più sfrenata scena cannibalistica delle menadi. Il tema del doppio è talmente penetrante da scorgersi dovunque, persino negli arredi scenici (la colonna tombale di Semele diviene l’albero del Citerone dove Penteo, travestito da donna, si aggrappa mirando l’orgia antropofaga). Il terremoto e la liberazione di Dioniso dalla prigione: altra scena nodale, che Martone interpreta muovendo la parete centrale, fendendo un mobile e facendo emergere regalmente Dioniso dal suo regno, il sottosuolo. La chiave estetica, tutta novecentesca, che Martone usa per raccontarci il dionisismo henziano è quella, anticlassica e anti-tragica, del satanismo reinterpretato dall’esoterismo novecentesco: la crudezza delle menadi, le loro bocche lorde di sangue umano, l’abbigliamento, la nudità, tutto concorre a evocare il satanismo – l’insistita e non convinta castità di Penteo ne sono il contraltare: ancora il tema del doppio… –, satanismo specificamente novecentesco, uno sguardo sull’insondabile ferinità della psiche umana. Ferinità psichica, che Martone crudamente ci mostra: nella viscerale crudezza del suo linguaggio, anzi, sta proprio il bello della sua regia.

Stefan Soltesz rende piena giustizia alla partitura henziana, una calibrata climax ascendente di tensione, in cui si cumula vieppiù angoscia con l’avvicinarsi della catastrofe finale. Questo inarrestabile flusso ritmico è fatto scorrere senza freni; è su questo nerbo che si inseriscono le screziature date dall’uso sapiente dei timbri dei legni, dell’arpa e degli archi: la maglia orchestrale si fa raffinatissima, erede della migliore scuola mitteleuropea tardo-romantica e espressionista. Le voci sono tutte all’altezza. Il Dionysus di Ladislav Elgr è imperscrutabile, mistico, divino: una recitazione mai sforzata, un incedere da ballerino più che da cantante e un’eccellente scelta dei costumi (quando si mostra mezzo nudo in abiti orientaleggianti palesa un’innata regalità) che esaltano il naturale physique du rôle, lo rendono credibilissimo nella parte. Non ha voce potente: ma è capace di un fraseggio scolpito e melodioso («I found a child asleep, more beautiful») e ci regala una scena potentissima nell’apoteosi finale sua e di Semele. Russell Braun canta un Pentheus convincente, anche se gli ci vuole un po’ per far emergere degnamente il volume della voce e stagliare acuti penetranti. Dal suo arioso «Faithful Beroe», infatti, cominciamo a godere le vere qualità di Braun, capace anche di un fraseggio più mite e soffuso, come nell’aria del suo fantasma/sogno mentre descrive lo sbranamento perpetrato da sua madre («I looked into eyes that were my own»). Mark S. Doss (Cadmus) ha una voce baritonale tornita e dall’emissione chiara coniugata a un ottimo senso della recitazione teatrale; del pari, il Tiresias di Erin Caves eccelle in bellezza e clarità di timbro – una parte, quella di Tiresia, che un qualunque operista ottocentesco avrebbe, naturalmente, dato a un basso e che Henze affida alle corde tenorili, spettrali, eteree, di una scrittura verticale, che ama sfogare in acuti sovrannaturali. Andrew Schroeder (Captain of the Royal Guard), Sara Hershkowitz (Autonoe) e Sara Fulgoni (Beroe) sono bravissimi interpreti e cantanti. Eccellente Veronica Simeoni nella parte di Agave: il suo timbro morbido, soffice e l’emissione pulita, facile, fanno sì che possa giocare con gli infiniti colori della parte; le sue doti d’eccellente attrice si palesano appieno nella metamorfosi che fa compiere al personaggio di Agave da donna scaltrita, incurante dei dispiaceri della vita, a infuriata menade preda del furore bacchico. Straordinaria risulta nella scena del riconoscimento della testa di Penteo.

Un applauso troppo tiepido accoglie i cantanti, il regista e il direttore alla loro sortita finale sul palco. Cartina al tornasole di un pervicace tradizionalismo del pubblico dell’Urbe: fosse stata una Macbeth o, che so io, una Norma a aprire la stagione, gli applausi sarebbero stati certo (a prescindere dall’esito della serata) più calorosi. Ma dell’eccellente produzione si saranno resi conto, solo sul piano musicale, gli ascoltatori di RaiRadio3 e se ne potranno render conto anche i telespettatori di Rai5. Di fronte alla bellezza de Le Baccanti di Euripide reinterpretate dal gusto raffinato di Henze, del resto, bisogna fare come ci suggeriscono i bassaridi alla fine dell’opera: inginocchiarci e adorarle.

 

foto Yasuko Kageyama