Torbido Elisir

 di Roberta Pedrotti

 

Poco convincente sotto il profilo musicale L'elisir d'amore che chiude la stagione del Comunale di Bologna: Stefano Ranzani dirige con pesantezza e grigiore una compagnia (Bargnesi, Poli, Senn, Luongo) non esente da problemi. L'allestimento è quello noto e rodato a firma di Rosetta Cucchi.

BOLOGNA, 15 dicembre 2015 - Poche opere possono vantare un equilibrio, una chiarezza, una nettezza di caratterizzazione e un'immediatezza comunicativa pari a quelle dell'Elisir d'amore. Non un'opera facile – se mai ne esistono – ma sicuramente un'opera che è difficile far naufragare, tanta è la sua forza intrinseca.

Così il Comunale di Bologna sembra andare sul sicuro per chiudere la sua stagione 2015 (quella che ci ha regalato Un ballo in maschera, ma soprattutto Jenufa ed Elektra da ricordare) con un sorriso. Sicuro è, indubbiamente l'impatto del collaudato allestimento di Rosetta Cucchi, nato in questo stesso teatro cinque anni fa e rivisto poi anche a Firenze: il contesto è quello di una scuola di performing arts all'americana, che giustifica così le molteplici attività, la permanenza degli studenti che vi risiedono, le dinamiche esuberanti, l'allegra indisciplina. La regista bada bene a limare tutti i possibili attriti con i versi di Felice Romani, trasformando, per esempio, il coro iniziale nello studio di una tediosa “Ode al Mietitore”, tosto rimpiazzata dalla più avvincente vicenda di Tristano e Isotta che Adina sottrae per scherno a Nemorino. Il quale, naturalmente, non è un contadinotto analfabeta, bensì il ragazzo più imbranato della classe, vittima predestinata di piccoli e grandi bulli. Così i rapporti e i caratteri sono definiti e rispettati senza forzature: Adina resta la leader della comunità, la migliore in tutto e quindi anche la più arrogante, nonché sentimentalmente disinvolta, una perfetta reginetta della scuola con il suo gruppo di fedelissime fra cui riconosciamo Giannetta; Belcore è spavaldo e spaccone come deve essere, un bulletto di periferia, capo di una banda che ama autodefinirsi in termini militareschi (lui è il “Sergente”, il suo rivale il “Capitano”, ribaltando così senza mutare una virgola il senso della partenza nel finale primo); di Nemorino si è detto, mentre Dulcamara è un venditore girovago ai limiti della legalità, uno stravagante sopravvissuto della beat generation, vagabondo a bordo del suo chopper decorato con figlie di marjuana. Insomma, tutto fila liscio in una delle mille possibili declinazione della commedia di caratteri che è L'elisir d'amore.

Non altrettanto liscio fila però l'ascolto, affidato alla responsabilità di Stefano Ranzani, che sembra avvolgere l'orchestra in una nebbia che ingrigisce i colori e offusca i contorni, correndo seriamente il folle rischio di annoiare con musica che sarebbe la più accattivante, fine e appagante possibile. Sono, poi, da stigmatizzare i numerosi colpi di forbisce assestati qua e là e soprattutto nelle strette e nelle riprese delle cabalette: è vero che il cast non brilla per virtù prodigiose, ma azzoppare gli equilibri interni dei numeri non risolve i problemi, anzi, forza i codici del belcanto ottenendo il paradossale risultato che, per qualche minuto risparmiato sull'orologio, la durata percepita cresce e si appesantisce.

Certo, se una direzione greve e monocorde è una bella zavorra, poco o nulla ci rinfrancano le voci, vuoi perché non sorrette dal podio, vuoi per limiti oggettivi.

Spiace, per esempio, riscontrare un momento poco felice per Barbara Bargnesi, che denuncia un certo affaticamento nei centri come nella coloratura e nel legato, estremi acuti un po' taglienti, e una proiezione limitata: non si tratta tanto di voce piccola, quanto della netta sensazione di un suono che rimanga nei dintorni della cantante senza espandersi in sala. Il momento migliore risulta il cantabile “Prendi, per me sei libero”, ma decisamente troppo poco per un'Adina a questi livelli. Il coté femminile della locandina, peraltro, è completato dalla problematica Giannetta di Elena Borin.

Fra i signori del cast, emergerebbe la voce di Antonio Poli, giovane tenore dotatissimo per colore, squillo, pastosità del suono, facilità in acuto. Peccato che alla natura non si sposino fino in fondo l'arte e la tecnica, che l'istinto non sia dominato da una gestione del fiato che gli consenta una più forbita musicalità, un legato meglio a fuoco, un'intonazione libera da fastidiosi cali.

Christian Senn è un Belcore ruvido che può anche ben funzionare in questo contesto scenico che ne accentua l'arroganza ai limiti della violenza e lo trasforma di fatto, in un delinquentello; siamo tuttavia in un'opera di belcanto e anche il personaggio più fosco andrebbe delineato con ben altra disinvoltura nel legato e tornitura dell'emissione.

Il migliore risulta essere Alessandro Luongo, che coglie l'eredità non facile di un personaggio ritagliato dalla regia, nel 2010, su un colosso del teatro come Michele Pertusi: il baritono fiorentino sa affermare la sua personalità con un Dulcamara dinoccolato e spassosissimo, mai buffonesco ma gustosamente autoironico. Certo, i ruoli nei quali la sua voce emerge sono quelli di baritono nobile primo ottocentesco nei quali possa mettere anche in luce la sua facilità nelle tessiture acute (ricordiamo un sorprendente Don Carlo nell'Ernani, molto più convincente di tanti colleghi schiettamente verdiani), mentre la tessitura bassbaritonale e la scrittura da tipico buffo del nostro ciarlatano non lo trovano pienamente a proprio agio, musicalmente a fuoco senza tuttavia emergere come in altre occasioni.

Detto dell'eroico impegno di coristi di ogni età nel vestire panni studenteschi con divertita convinzione e della loro prova sempre attendibile, non resta che testimoniare i calorosi applausi che hanno premiato tutti gli interpreti al termine della recita. Perché L'elisir d'amore, alla fine, vince sempre.

foto Rocco Casaluci