Il riscatto mutilato

 di Roberta Pedrotti

Alternanza di cast per L'elisir d'amore al Teatro Comunale con esiti, se non esaltanti, più saldi e omogenei, benché, ancora una volta, ostacolati dalla direzione anacronistica di Stefano Ranzani, dalle forbici troppo facili.

Leggi la recensione della recita con Bargnesi, Poli, Senn e Luongo

BOLOGNA 16 dicembre 2015 - Le recite ravvicinatissime (sabato 19 addirittura due consecutive) e il rimescolamento dei turni d'abbonamento fra quelli tradizionalmente associati a un primo e a un secondo cast gerarchicamente e qualitativamente distinti rivelano già sulla carta che fra le due compagnie di questo Elisir d'amore grande differenza non sussista, anzi, che a conti fatti ritentando si possa anche essere più fortunati.

Non si sarà trattato di un Elisir memorabile, infatti, ma quantomeno nella recita del 16 dicembre, debutto della compagnia cadetta, abbiamo notato una maggiore omogeneità complessiva e voci generalmente più a fuoco.

Non sarà esente da problemi l'Adina di Rocio Ignacio, che tende talora ad allargare troppo i suoni perdendo quel nitore che si vorrebbe nel belcanto e stancandosi inutilmente. Pur con qualche momento in cui il vibrato non è perfettamente controllato o la voce perde un po' di punta, però, la proiezione risulta adeguata e l'interprete tutto sommato garbata e attendibile. Sicuramente un maggior sostegno e altri stimoli dal podio avrebbero giovato a lei come ai colleghi, in primis il Nemorino di Fabrizio Paesano, dotato di un materiale di un certo interesse con suggestive bruniture nel grave, ma anche afflitto da una brutta tendenza a stringere la coda e mandare indietro la voce, soprattutto intorno al passaggio all'acuto.

Continua a faticare la Giannetta di Elena Borin, che, retrocedendo di qualche fila in platea rispetto alla sera precedente, ci appare anche decisamente più fioca.

Le cose migliorano con le voci gravi, ché Vittorio Prato ha voce ben educata, stile e musicalità; gli manca ancora un pizzico di boria in più, ma talvolta melium deficere quam abundare. Marco Filippo Romano si sta sempre più affermando nel repertorio buffo e si trova a suo agio nella scrittura di Dulcamara, coniugando con buona teatralità anche le sue caratteristiche fisiche – più piccolo e rotondetto rispetto ai colleghi che l'hanno preceduto nell'allestimento – alla definizione efficace del personaggio, forse il più sviluppato e intrigante pensato dalla Cucchi. E, difatti, la messa in scena ribadisce la sua solidità anche assestando i caratteri a seconda degli interpreti: se, per esempio, l'Adina della Bargnesi sembrava più sfrontata, la vedevamo però cedere più facilmente al machismo di Belcore - contraddizione non così inverosimile -, mentre nel caso di Ignacio/Prato il gioco è alleggerito, più alla pari, altrettanto credibile. Le scene di Tiziano Santi, fra realismo e surrealismo, sono efficaci e funzionali, così come i costumi di Claudia Pernigotti e le luci di Daniele Naldi.

Il problema resta sempre quello di una partitura mutilata da tagli inconsulti, privi di un qualsivoglia equilibrio stilistico, anzi inesorabilmente destinati a ottundere il meccanismo perfetto del crescendo, dello sviluppo e dell'articolazione di temi, ritmi, dinamiche. Le forbici antiche si sposano alla gestione alquanto datata dei recitativi (senza appoggiature, come si faceva decenni e decenni fa), non con la moderna sensibilità, con la formazione dei cantanti donizettiani di oggi, che alternano l'Elisir a Rossini più che a Verdi, e, di conseguenza, con una gestione agogica meno ampia e più spedita, che però nei confini angusti della stretta dimezzata più rapidamente si affloscia e sa d'incompiuto. Un'aura di pesantezza non abbandona la bacchetta di Stefano Ranzani nemmeno questa sera e, certamente, entrambe le compagnie avrebbero reso molto meglio se dal podio fosse venute altre sollecitazioni e altra sensibilità.

Applausi, alla fine, anche se meno calorosi della sera precedente, ma, si sa, ogni turno d'abbonamento ha il suo carattere.