Il giardino dell’eleganza

 di Francesco Lora

Al Theater an der Wien si completa l’anno del debutto di Rousset nell’Armide di Lully. L’erudita lettura – oggi di assoluto riferimento – si avvale di una compagnia di canto ricostituita rispetto alle recenti recite a Nancy, e sarà presto disponibile in CD.

VIENNA, 18 dicembre 2015 – L’Armide di Jean-Baptiste Lully (Parigi, 1886) fissa il paradigma dell’opera francese nell’Ancien régime, con una forza di riferimento che non ha l’eguale nella storia dell’opera italiana del Sei-Settecento. Eppure è un titolo negletto. La discografia annovera tre sole incisioni: la prima diretta da Philippe Herreweghe (Erato, 1983), da lui ripudiata e ora fuori stampa; la seconda diretta dallo stesso (Harmonia Mundi France, 1993), ben riuscita ma non più à la page; la terza diretta da Ryan Brown (Naxos, 1998), hélas basata sul solo criterio del low cost. Il miglior documento oggi disponibile è videografico, e deriva dallo spettacolo del 2008 al Théâtre des Champs-Élysées: concertazione specialistica di William Christie, regìa iperurania di Robert Carsen, ma piccole e assurde potature sparse nella partitura, un grave errore esegetico nel finale teatrale, e una protagonista, Stéphanie d’Oustrac, impegnatissima ma non carismatica (grosso problema: Armide è anche l’atto di fondazione della primadonna alla francese).

La seconda metà del 2015 ha nondimeno segnato la svolta, grazie all’interprete più atteso negli ultimi tre lustri. Lettore erudito, caparbio, ispirato e appassionato, Christophe Rousset ha già diretto, di Lully, Amadis, Bellérophon, Cadmus et Hermione, Persée, Phaéton e Roland; a costo di far sospirare il musicofilo, ha tenuto per i tempi maturi l’esecuzione del titolo massimo. La sua Armide ha esordito in giugno-luglio scorsi, all’Opéra National di Nancy (in forma scenica) e al Festival di Beaune (in forma di concerto); si è avvalsa malgré soi della regìa di David Hermann, geniale sotto alcuni aspetti (la filologia scenografica) e fallita sotto altri (l’abuso del teatro nel teatro); e si è soprattutto avvalsa di una valida compagnia di canto e dell’orchestra personale di Rousset, quei Talens Lyriques che possiedono come non altri la purezza, l’eleganza, la freschezza e la rifrazione del diamante. Il 10 e 18 dicembre, una produzione in parte diversa ha toccato la Cité de la Musique di Parigi e il Theater an der Wien, e sarà tra breve disponibile in CD.

Il concerto viennese qui recensito è di quelli che si ascoltano con compiaciuto orgoglio, sicurezza e non sorpresa, mente sempre ammirata. Se a dirigere Lully è Rousset, già si sa che tutto sarà prova di vivida intelligenza e studio inesaustibile. L’unica rinuncia è quella alla pronuncia prerivoluzionaria del francese, con il dittongo oi ascendente in oe e non cadente in ua, con le s e le z esplicitate a fine parola e con altre bellurie fonetiche che mandano in estatico solluchero chi scrive. All’appello risponde tutto il resto: ornamentazione svolta con maniacale esattezza filologica; ripetizioni melodiche variate sempre e in modo sopraffino; contrasti timbrici e agogici estremi, senza inficiare la bellezza letterale; preparazione capillare dei cantanti e palese complicità con essi; una forbitezza di porgere che ammalia, stordisce, trasporta nel più razionale e studiato – ma anche nel più edenico e luminoso – dei giardini di Armida. Si ascolta il capolavoro di un genere intero che, in concertatore e maestranze, trova finalmente la lettura di riferimento.

Le maestranze vedono riconfermati, beninteso, gli strumentisti dei Talens Lyriques, ma vedono nel contempo sostituito il coro residente dell’Opéra National di Nancy – volonteroso senza essere specializzato – con il Chœur de Chambre di Namur, vale a dire la più rifinita macchina polifonica per il repertorio francese moderno, capace di un esito nuovo, incisivo ed euforizzante. La compagnia di canto, a sua volta, da giugno a dicembre è stata in ampia parte ricostituita, mutando pelle e qualche indirizzo stilistico, ma mantenendosi a un pari valore finale. Hélène Le Corre prende il posto di Judith van Wanroij come Gloria, Phénice e Mélisse, e di Hasnaa Bennani come Ninfa: non ha l’algida incisività dell’una né la radiosa giovinezza dell’altra, ma una pari squisitezza di modi e mezzi. Marie-Claude Chappuis rimane invece come Sapienza, Sidonie, Lucinde e Pastorella, ed è sempre più encomiabile per delicato velluto timbrico e per una musicalità superiore, grazie alla quale ella muta fraseggio a ogni passo senza calligrafia e sempre sorridendo.

Renaud era Julian Prégardien a Nancy e a Vienna è Antonio Figueroa: due tenori di ascendenza differente, accomunati dalla facilità nel registro acutissimo di haute-contre e dal portare anche a quell’altezza timbri personali, differenziati in Prégardien da un maggior scrupolo stilistico e in Figueroa da una più immediata comunicativa latina. Lampante cambio di rotta per le parti di Aronte e del Livore: Marc Mauillon, tenore leggero che – soprattutto nel secondo caso – puntava tutto sui modi viscidi e insinuanti, cede il posto a Edwin Crossley-Mercer, scuro baritono interessato meno all’analisi testuale che a torreggiare con volume ampio e accento roccioso. Non v’è più nemmeno l’affaticato Andrew Schroeder come Hidraot, sostituito dal diligente Douglas Williams; né il passabile Fernando Guimarães come Cavalier Danese e Amante fortunato, sostituito dal preferibile Cyril Auvity; né i corretti Patrick Kabongo e Julien Véronèse come Artémidore e Ubalde, sostituiti dagli equivalenti Emiliano Gonzalez Toro ed Étienne Bazola.

Un discorso a parte merita il ruolo protagonista e chi lo regge. Il repertorio francese, e in special modo quello secentesco, privilegia la sottigliezza della parola sulla formazione di una vera scuola di canto e sull’esibizione di mezzi vocali importanti. Fra tradizione e renaissance, ancora oggi si vedono sorgere, per questo repertorio, cantanti più attenti nello stile che dotati dalla natura e solidi nella tecnica. Come a Nancy, qui Armide è invece Marie-Adeline Henry, un giovane soprano che impressiona per inusuale sovrabbondanza di smalto, volume, estensione, sciabolate d’accento concepibili non tanto in chi voglia quanto in chi possa. Lo studio della parte – detto con consenso – è a sua volta radente l’ossessione: non v’è sillaba e nota che non manifestino un’intenzione precisa e chiara. Spiace però che, come nella regìa di Hermann, Armide taccia qui la mille voci della femminilità tormentata, divisa tra la maga e l’amoureuse, e segua perlopiù eccessi espressivi monocromatici da megera méchante o – persino – da scatenata interprete verista. Che impressione se ne avrà nel CD?