Mani da pianista

 di Roberta Pedrotti

 

Zhi Chao Julian Jia, ventitreenne cinese forte di un bel curriculum di premi internazionali, debutta a Bologna nella rassegna Musica Insieme in Ateneo.

BOLOGNA, 12 marzo 2015 - Quando s'inchina, saluta e ringrazia il pubblico, Zhi Chao Julian Jia mostra un sorriso adolescenziale che suggerisce emozione e timidezza. Al pianoforte, è chiaro, si sente a suo agio e del fisico minuto sembra illuminare solo le mani. Mani lunghissime, dalle dita infinite e affusolate come zampe di ragno. Esattamente quelle che nell'immaginario comune – al di là dei casi che ci offre una realtà dove i virtuosi possono avere anche estremità brevi e paffute – si identifica con le “mani da pianista”, che fanno perno su polsi forti, robusti.

La potenza, l'agilità, il fraseggio non dipendono affatto, si sà, dalla muscolatura o dalla struttura fisica, bensì dalla tecnica e dalla musicalità, tuttavia la natura ha dotato indubbiamente Zhi Chao Julian Jia di due strumenti dal notevolissimo potenziale. Dita agili, che si divertono a scorrere la tastiera, a danzare fra bianco e nero sempre seguendo la stella polare del virtuosismo di scuola cinese, tecnico e preciso. Le salde fondamenta degli ossicini del carpo rassicurano, quasi, della tenuta e della resistenza di quelle falangi lunghe e minute, così come delle braccia sottili.

C'è però un rovescio della medaglia, ed è nel rischio di non trovare sempre il giusto equilibrio fra forza e agilità che, dati tecnici, sembrano incarnarsi visivamente nelle mani dell'artista, quasi ne simboleggiassero la personalità.

Quando si siede al piano Zhi Chao Julian Jia è a suo agio, ha la sicurezza di chi ha collezionato primi premi nei concorsi, esprime il piacere di chi ama lo strumento e si esprime attraverso di esso, dimostra meno dei suoi ventitré anni e comunica anche, comunque, la dolcezza e la fragilità di una gioventù votata alla musica, ricca di talento ma ancora in cammino.

Anche il programma che sceglie potrebbe essere allo stesso modo accademico, intelligente, rischioso: un percorso storico dal cembalo di Scarlatti (Sonata in sol maggiore K 433 e in fa minore K 466), al pianoforte di Schubert (Tre pezzi per pianoforte D 946) e, con i risultati migliori, di Chopin (Notturno in si maggiore op. 9 n. 3 e Sonata in si minore op. 58). La scelta di accorciare le distanze fra i tre autori, il primo dei quali muore quarant'anni prima della nascita del secondo e cinquantatré prima di quella del polacco, può essere interessante e fruttuosa. Troppo spesso la nostra prospettiva storica, viziata da una consapevolezza circoscritta soprattutto a una rosa di autori e capolavori a fronte di un mondo musicale ben altrimenti ampio e febbrile, tende a isolare le generazioni, dilatando o contraendo il loro avvicendarsi. Tuttavia l'evidenziare una continuità fra Domenico Scarlatti e la grande tradizione pianistica viennese e parigina della prima metà del XIX secolo non deve significare renderli troppo simili, come talora sembra succedere in questo caso. E non si tratta tanto della resa della scrittura cembalistica, le cui peculiarità sonore non riteniamo debbano essere necessariamente scimmiottate al piano, quanto di un'articolazione e di un fraseggio che vogliono giustamente suggerire l'influenza dell'italiano sui posteri pianistici, ma proprio perché non esaltano le diverse personalità offuscano ancora un po' l'effetto dell'accostamento. Per mostrare l'affinità, bisogna, insomma, cogliere anche le differenze e le distanze e questo equilibrio è ancora in nuce, non pienamente maturo nel tocco di Zhi Chao Julian Jia.

Quando torna e ripaga la calorosa accoglienza dell'Auditorium del Laboratorio delle Arti di Piazzetta Pasolini con due bis, Zhi Chao Julian Jia sorride, si diverte, con fare concentrato e disinvolto, a sciorinare agilità liberamente. Chiude gioiosamente senza sciogliere troppo quel riserbo che ispira simpatia. Successo pieno proclamato da voci e battimani. E dall'augurio che la personalità artistica di quest'artista possa fiorire mettendo a frutto la sensibilità e la tecnica che non mancano, ma sembrano ancora covare sotto le cenere in una maturazione in corso.