Il demone danzante

 di Roberta Pedrotti

 

Martha Argerich e Gidon Kremer, in concerto per il Bologna Festival, affermano, ancora una volta, cosa significhi fare musica nel senso più alto del termine, distillando anni di perfezionamento, studio ed esperienza nel gusto freschissimo di un'arte che sempre sa stupire e rinnovarsi, profonda e gioiosa nell'elegante e coinvolgente complicità fra i due artisti.

BOLOGNA, 26 marzo 2015 - Martha Argerich e Gidon Kremer. Potrebbero bastare i nomi. Così si toglierebbe il critico dall'impaccio di dover tradurre in parole lo stato ineffabile di un'arte che fa proprio del suono senza parole, come della manipolazione del tempo, la sua dimensione. Tanto, però, questi due nomi hanno dato e significato ancora una volta, che parrebbe quantomeno ingrato non raccogliere la sfida e tentare, almeno, di tradurre l'intraducibile, ovvero la più bella ed elevata soddisfazione del mestiere del critico. Non celebrare, non annotare puntigliosamente vizi e virtù, pregi e difetti, ma cercare di esplorare nelle parole l'esperienza artistica.

D'altra parte, ci sembra superfluo annotare ancora una volta la risaputa perfezione tecnica della pianista e del violinista, pur tuttavia questa stupisce ancora, stupisce e incanta per quel tocco sui tasti che riesca a dare i brividi anche ore, giorni dopo il concerto, tanto è perfetto ed elegante il controllo del suono, nella forza e nella leggiadria, nella brillantezza e nella densità. Stupisce e incanta per  quell'archetto che pare onnipotente, tanto ad ogni altezza, in ogni gradazione dinamica non pare ci siano limiti alle sue capacità virtuosistiche ed espressive.

Argerich e Kremer sembrano mostrare il pianoforte (lo strumento eccellente, peraltro, che avevamo visto debuttare nell'auditorium dell'università con le Variazioni Goldberg suonate da Maria Perrotta il 22/01/2015) e il violino come non li avevamo mai immaginati, con una versatilità, una plasticità, una poesia che è propria solo dei più grandi. E finché non si sono incontrati, questi grandi, nemmeno si era osato sognare che uno strumento potesse tanto.

E si gode il gusto della scoperta, l'aroma della Musica condivisa che, fra mille concerti anche eccellenti, raramente si assapora così fragrante. Perché quella perfezione tecnica è un patente atto d'amore, di rispetto, di dedizione verso l'arte, verso se stessi, i colleghi, il pubblico. È una continua ricerca che non trova la sua spinta nel perfezionismo puro e semplice, ma nell'impellente necessità di dire, di condividere; e la consapevolezza che solo la piena padronanza dello strumento può permettere la piena espressione artistica non è altro che la logica, naturale conseguenza della sensibilità degli interpreti. Questi sembrano distillare meraviglie così come respirano: un gesto inevitabile, innato. Sanno far dimenticare il peso meticoloso di una vita di studio, ma ne sanno ammanire frutti nei quali questo lavoro e lo scorrere del tempo hanno distillato i sapori più preziosi.

Ci si sente, semplicemente, privilegiati assistendo a un loro concerto, e non perché loro - che entrano, suonano, ringraziano, senza una parola in più - ci facciano percepire l'onore di ascoltarli, ma perché tanta grandezza si respira come un'ambrosia divina, preziosa di per sé e non perché qualcuno si debba mai premurare di farne notare il valore.

La sensazione di onnipotenza degli strumenti, con il loro suono così arguto e plastico, è data proprio dalla franchezza del dialogo musicale, dall'equilibrio perfetto fra due personalità così forti e così ben armonizzate, che giocano rimbalzando fra tastiera e archetto stimoli, dinamiche, come in una danza dove il ruolo di guida si alterni fra i due partner in una complicità che non conosce cesure, solo scambi sottili di sguardi e suggestioni.

Il rischio, se così si può dire, è che l'incanto dell'esecuzione concentri l'attenzione sugli interpreti ponendo in secondo piano il programma. Un po' di vero ci potrebbe anche essere, perché in quel momento, in sala, non possiamo non pensare che da loro ascolteremmo con gioia qualunque, proprio qualunque cosa. Ma artisti di questo livello sono tali proprio perché al servizio della musica, capaci di vivere e illuminare ogni partitura, di credere in ogni pagina che interpretano. Così Mieczysław Weinberg, ebreo polacco trasferitosi nel 1939 nell'URSS e morto a Mosca nel 1996, non ci sarà parso il compositore più significativo del suo tempo, bensì un solido musicista che, nella Sonata n.3 op. 126 per violino solo più che nella Sonata n. 5 op. 53 per violino e pianoforte, sembra porsi sulla scia di Šostakovič addolcendone i tratti più spigolosi, ammorbidendone l'afflato lirico più ardente. Tuttavia, esso trova tutta la sua ragion d'essere e si esalta nella misura e nell'intensità del violino di Kremer, prodigiosamente intonato e preciso nell'eseguire ogni arcata, ogni trillo in qualsivoglia gradazione dinamica, con suono agile mordente e penetrante dalla rotondità dei gravi fino all'estremo acuto. Si esalta nella perfetta complicità, nella profondità naturale di entrambi aprendo la serata con la Sonata a due.

Inevitabilmente la temperatura si fa incandescente, il concerto esaltante con la Sonata in Sol Maggiore op. 30 n. 30 di Beethoven, la cui complessità è vissuta con tale naturale, intelligente chiarezza da vibrare ineluttabile e gioiosa fra assalti tempestosi, nobili semplicità e quiete grandezze. Difficile immaginare un Beethoven più intimamente sentito, più amato, sintesi perfetta del suo tempo e pure moderno, sempre inevitabilmente attuale e inattuale, in definitiva, classico e vivo.

Il programma ufficiale si è chiuso con César Franck e la sua Sonata in La maggiore, nella quale ancora una volta la sottigliezza, il gusto supremo e la simbiosi artistica di Argerich e Kremer hanno saputo distillare il meglio della partitura, evitando ogni leziosaggine e cogliendo invece con un'arguzia senza pari l'ineffabile aroma fin de siècle, la tradizione francese filtrata nella peculiare sensibilità belga del compositore di Liegi.

Inutile, quasi, testimoniare il magnetismo di ogni esecuzione sul pubblico, pressochè paralizzato nell'ascolto fino a esplodere in ovazioni dopo ogni pezzo (benché, talora, l'emozione fosse tale da gelare la gola e le mani, strumenti indegni dopo tanta meraviglia).

L'entusiasmo è ben ripagato. Il pubblico non si alza. Martha Argerich e Gidon Kremer non si fanno pregare, è evidente come loro per primi siano felici di suonare insieme su quel palco, come non possano e non vogliano considerare finita la serata e interpretino perfettamente il comune desiderio della sala. Tre bis, allora, in cui spicca uno smagliante estratto dalla Sonata a Kreutzer, perla splendente come poche, prima di chiudere con un intrigante Tango di Piazzolla. Confermano, ancora una volta, di danzare insieme, fra tasti e archetto, con un'eleganza, una passione, una complicità che difficilmente si potrebbero definire altrimenti che come il sublime Duende della Musica.

E se, nelle parole, non ne avremo espresso il cuore, ma solo celebrato lo splendore dell'epifania, tanto alta era l'impresa che possiamo confidare nell'indulgenza dei lettori.