di Stefano Ceccarelli
Il giorno commemorante la Liberazione dall’oppressione fascista, l’Accademia di Santa Cecilia lo festeggia proponendo un programma il cui pezzo forte è l’esecuzione del Requiem in re minore, per soli coro e orchestra K 626 di Wolfgang Amadeus Mozart. Lo anticipa la rara Prima sinfonia di Franz Schubert. La prima del concerto consegue un grande successo grazie alla prorompente direzione del giovane colombiano Andrés Orozco-Estrada, emerso dalla scuola di Vienna.
ROMA, 21 aprile 2015 – Per il settantesimo anniversario della liberazione dall’oppressione nazi-fascista, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia crea un programma che vede ad hoc l’esecuzione del celeberrimo Requiem mozartiano: la sala è gremita e l’attesa è trepidante. Andrés Orozco-Estrada, colombiano di nascita ma viennese di studi, entra pimpante e attacca la Prima Sinfonia in re maggiore di Schubert. Quando la compose, il piccolo Franz aveva appena sedici anni. Eppure, lungi dall’essere un giochino infantile, questa sinfonia mostra tutta la lucente consapevolezza melodica, tutta la precisa ricchezza armonica che caratterizzeranno la futura musica di Schubert. Orozco-Estrada attacca mostrandoci la sua caratteristica più spiccata: l’energia e la veemenza del gesto. Legge la partitura cogliendone la grande vivacità e vitalità: dopo un Adagio che ha il sapore dell’incipit dell’ouverture del mozartiano Don Giovanni, l’Allegro vivace è retto da temi di cristallina, neoclassica, tersa sonorità. Tutto il prorompente fascino melodico del piccolo Franz, enfant prodige il cui astro sarebbe stato destinato a splendere nei secoli, si scorge anche nell’Andante, un’oasi arcadica di placida calma, nel frizzante Minuetto e nella brillante verve dell’ultimo movimento. Applausi calorosi accompagnano l’uscita del direttore; ma il pubblico è tutto intento all’attesa del secondo tempo.
Ed ecco il tanto atteso Requiem, l’ultimo capolavoro di…Mozart? In effetti, sebbene le principali linee melodiche e qualche elemento di accompagnamento siano stati scritti di pugno del maestro, la stragrande maggioranza dell’orchestrazione e interi numeri (il Sanctus, il Benedictus e l’Agnus Dei, assieme alla Communio) vennero interamente scritti dai musicisti, allievi e amici di Mozart, che furono incaricati dalla giovane vedova Costanza di terminare la partitura: il grosso del lavoro fu sostenuto da Süssmayer e Stadler. Incredibile, inoltre, come le mani apocrife vennero scoperte solo dopo il 1825, quando si cominciò a comprendere che l’opera non poteva essere interamente mozartiana. Ma il mistero più fitto, in ultimo il fascino tangibile della partitura è come l’ascoltatore moderno sia indotto ad esserne profondamente trascinato, emozionato: anzi sommerso dalle emozioni; in fin dei conti, che importa se una così bella creatura sia di mano autentica di un genio, o piuttosto una geniale mano l’abbia iniziata e altre, da lei ispirate, l’abbiano compiuta? Orozco-Estrada − entrati e dispostisi i cantanti − inizia la sua lettura del Requiem. Il ciglio virile della sua direzione si sente fin dal Requiem aeternam: e infatti, troppo spinto risulta l’Adagio che apre la sacra composizione. Sublime l’effetto del coro sul «luceat eis». Coro (Ciro Visco), che sarà straordinario nell’intera performance. Tale direzione al cardiopalma di Orozco-Estrada meglio si adatta al grido di pietà del Kyrie eleison, dove il coro incarna lo strazio dei fedeli bramosi di redenzione: l’acuto finale di tutta la compagine corale è stupefacente. Ancor meglio il piglio del Dies Irae − travolgente terrore per l’atteso giorno del Giudizio: forse in questa apocalittica visione il dinamismo di Orozco-Estrada tocca il suo massimo grado. L’entrata del basso nel Tuba mirum riesce magnificamente: Luca Tittoto possiede un mezzo vocale straordinario, un caldissimo vibrato al centro di una voce da autentico basso, tripudiante di armonici. Lo stesso non si può certo dire del tenore, David Ferri Durà, fin dalla sua entrata: il suono esce schiacciato, gracidante, strizzato, dove pure il timbro non è dei più desiderabili. Al contrario, magnifica esce la voce di Marianna Pizzolato: il suo timbro pastoso, caldo, suadente, che esalta la chiave di mezzosoprano, sorregge un fraseggio elegantissimo. Rachel Harnisch, sebbene non possegga il fraseggio della Pizzolato, esegue con grazia la parte del soprano e ci regala delle frasi cantante con etereo legato, mercé anche un bel, limpido timbro. Nel Rex tremendae majestatis sono straordinari gli attacchi in forte del coro, cui fa da pendant l’intimistico, accorato «salva me, fons pietatis», sublime. Segue il Recordare, dove Orozco-Estrada comincia a rilassare la sua direzione, sciogliendo la melodia del quartetto delle voci. Dopo un energico Confutatis, ecco il Lacrimosa, momento stupendo, forse il più alto dell’intera esecuzione: il coro è lasciato espandersi, riuscendo pienamente a incarnare l’ethos struggente della musica, dimostrando di saper emettere delle sonorità soffuse poi aprentesi nell’espressione più marcata del dolore, fino al parossismo finale sull’«Amen». Il canone del Domine Jesu Christe prelude al placido rasserenamento dell’Hostias. Intensamente espressivo il Sanctus; aggraziato il Benedictus; ottima la climax nell’Hosanna. All’accorato Agnus Dei segue, poi, il finale, lo stupendo Lux aeterna: la composizione si chiude sulla fuga già ascoltata nel Kyrie. Gli applausi arrivano fragorosi, catartici, da una sala gremita. Seppur con un’interpretazione più energica che ieratica, il Requiem di Orozco-Estrada colpisce e emoziona.
In un momento storico come quello in cui viviamo, dove l’ombra dei fascismi s’insinua minacciosa, pertinace a estinguersi, questo Requiem è per la Liberazione: non certo con la speranza che sia il canto del cigno della Liberazione stessa, ma affinché sia memento di tutti quei morti che si sono sacrificati per donarcela. Chi di noi non ha, o ha avuto, in famiglia un partigiano della libertà? Ma quanto opaca, pericolosamente scontata, sta diventando questa libertà, conquistata col sangue di ecatombi di italiani. La speranza è che non ci sia più bisogno dei morti per liberare il nostro paese da qualsivoglia fascismo.
Il Requiem − quanto sia originale o meno, poco importa − rappresenta il testamento ideologico di Mozart verso la vita e soprattutto verso la morte. Mozart fu sicuramente caro agli dèi, giacché morì molto giovane. Ma della morte lui non sembra aver paura, anzi. Così scrive al padre Leopold nel 1787: sono queste le parole che Leonard Bernstein lesse prima della sua memorabile esecuzione della partitura nel 1988 e che mi pare sugellino perfettamente il senso del Requiem: «perché saper accettare la morte è il vero scopo della nostra vita. Così da un paio d’anni questa grande amica dell’umanità mi è diventata così familiare che il suo volto non mi fa paura, anzi mi rasserena e mi consola. E io ringrazio il mio Dio per avermi concesso la felicità di procurarmi − lei mi capisce − l’occasione di conoscere la morte come la chiave per la nostra vera beatitudine. Io non mi corico mai la sera senza pensare che forse, per quanto sia giovane, non vedrò mai il nuovo giorno. Ma nessuno di tutti quelli che mi conoscono può dire che io sia scontroso o triste. E per questa beatitudine ringrazio ogni giorno il mio creatore e la auguro di cuore a ognuno dei miei simili».