La luce di Mozart e il buio di Šostakovič

di Stefano Ceccarelli

Christoph Eschenbach porta all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia un programma singolare, oserei dire quasi manicheo: due composizioni di Wolfgang Amadeus Mozart, l’ouverture dalla Zauberflöte e la Sinfonia concertante K 364, e una di Dmitrij Šostakovič, la sua celebre Quinta Sinfonia. Due compositori di epoche lontanissime, di gusto totalmente differente. una perfetta gestione della tradizione canonica della musica rende Da una parte Mozart, demiurgo di stili e di canoni, placidamente asservito al potere e al rodeo delle committenze e del consumo curtense. Dall’altra un’agghiacciante, ritrosa ironia pervade il coatto ritorno di Šostakovič ai mezzi tradizionali per compiacere un potere totalitario, aberrante, che vedeva la musica come un mezzo di compiacimento di regime. Si può dar di avere, in un concerto, due situazioni musicali più diverse?

ROMA, 18 maggio 2015 – Christoph Eschenbach − che decenni or sono fu, addirittura, allievo di Szell e von Karajan − presenta all’affezionato pubblico dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, nella maggior sala dell’’Auditorium, un programma che apre con Mozart e chiude, cavalcando i secoli, con Šostakovič.

Il primo tempo è tutto mozartiano. Apre l’ouverture dalla Zauberflöte, uno dei classici dell’ascolto del grande pubblico, diretto all’Accademia nientedimeno che da Busoni, De Sabata, Richard Strauss, Mitropoulos. L’esecuzione è buona, ma mai trascinante o realmente coinvolgente, atta a valorizzare degnamente il pezzo: fin dai primi, massonici accordi, troppo secchi, a tirar via, senza quel pizzico di epica magniloquenza qui, a mio avviso, richiesto. Lo stacco con la sezione in Allegro è ben disegnato, ma l’esecuzione non ingrana e continua a mancare d’anima, di vis, d’allusione a quel misticismo di cui tutta la Zauberflöte è imbevuta − non certo critica genuina o lotta imperterrita al potere dell’Ancien Règime: è massoneria, è mistico cameratismo che, semmai, crea un contraltare al Règime che aveva già incominciato a vacillare, ad essere dissestato dalla Rivoluzione (siamo nel 1791). Lontana da ogni fervore politico-civile è, invece, la Sinfonia concertante in mi bemolle maggiore per violino, viola e orchestra K 364, brano di quella brillantezza tipica del Mozart più ispirato. Si respira una placida aria neoclassica, inscalfibile. Eschenbach vi si trova notevolmente a suo agio. Ecco l’inconfondibile sonorità degli orchestrali dell’Accademia risuonare libera, limpida, stupenda. I due solisti si inseriscono con i guanti di velluto, creando dei momenti di autentica magia: «elevano un gioco d’altissima fattura formale attraverso le reciproche imitazioni, i canoni, le frasi condotte omoritmicamente per ottava, per terza o per sesta, gli spunti fugati, intessendo un dialogo con l’orchestra che non relega quest’ultima a un ruolo di mero sostegno armonico ma di viva compartecipazione al disegno tematico e formale» (E. Girardi dal programma di sala). I due interpreti sono straordinari e confermano l’elevatissima preparazione degli Accademici e in particolare delle prime parti, com’è qui il caso: il primo violino del giovanissimo Roberto González-Monjas e la prima viola di Simone Briatore. Nell’Allegro danno sfoggio di tutta la loro maestria, facendoci rimanere a bocca aperta nella virtuosistica cadenza, suonata con una grazia e una precisione impareggiabili. Sull’Andante Carli Ballola ha scritto frasi stupende: sull’aereo velo dell’accompagnamento orchestrale «i due strumenti si comunicano interni affanni come due amanti sullo sfondo di uno scenario reso più austero dal progressivo affiorare di cromatismi e di rigori polifonici». L’esecuzione è magnifica: ancora i due solisti ci fanno sognare nella tristemente struggente cadenza. Il Presto finale − che Eschenbach interpreta agogicamente con prudenza −, tutto imperniato su disegni ritmici, conferma l’ottimo stato degli interpreti. Alla fine uno scroscio di applausi, assai più dei tiepidi che avevano accolto il precedente ouverture. Gonzáles-Monjas e Briatore si abbracciano calorosamente e ricevono, omaggio floreale, due girasoli. Al pubblico regalano un bis: il I movimento del Duo per violino e viola in sol maggiore K 423.

Il secondo tempo è dedicato alla monumentale Quinta Sinfonia in re minore op. 47, omaggio − si fa per dire! − al regime totalitarista comunista da parte di un pargolo della grande madre Russia, Šostakovič. Capolavoro di incredibile forza evocativa, per eseguirlo si necessita di una enorme quantit di orchestrali. Una partitura affascinante, che tradisce anti-programmaticamente sé stessa: scritta ufficialmente per compiacere il regime comunista, ne è piuttosto (anche se le interpretazioni sono discordanti) un’irriverente dissacrazione. Fallita la Lady Macbeth, Šostakovič diede in pasto ai Russi una Risposta di un artista sovietico a una giusta critica, tal è il sottotitolo della partitura sinfonica, quasi per redimersi agli occhi dell’opinione pubblica. Ma il mistero della Quinta si infittisce: Šostakovič stesso, in linea con questa sorta di ideale redenzione pubblica, pubblicò, sul giornale che ne aveva vituperato la Lady, l’interpretazione della partitura: parlò di «sviluppo dell’individuo» che si traduce in una sinfonia «essenzialmente lirica dall’inizio alla fine»; parlò di «tragedia sovietica», da non intendersi in rosso pessimismo, ma in «ispirazione positiva, paragonabile ad esempio al pathos vitalistico delle tragedie di Shakespeare». Una partitura, insomma, che vede la sua maggior difficoltà nel senso interpretativo da darle. In tal senso, Eschenbach dà il meglio di sé in questo affresco complesso e ardito, magniloquentemente sfrontato a tratti, sotterraneamente rassegnato in altri. L’orchestra suona magnificamente, compatta, generando sonorità sublimi. La partitura alterna momenti di forzata fanfara − l’adesione di facciata, cui Šostakovič dovette sottostare per non essere castrato dall’imperante ždanovismo − a squarci di più sincero intimismo, di novecentesca rêverie, come il Largo (III), magistrale esempio di orchestrazione, dove la fusione di diversi timbri (le trobadoriche arpe, i legni e il vapore soffuso degli archi) crea atmosfere trasognate, volutamente stranianti dalla realtà − è questo lo Šostakovič più sincero, in fuga dal reale? Se è giusta, com’io penso, l’interpretazione della sottesa ironia, la vendetta del compositore riuscì perfettamente. Aveva pugnalato lo ždanovismo dove non poteva difendersi, scegliendo un linguaggio apparentemente confacente all’epica, tronfia, militaresca superbia totalitarista. Il tutto-partito, musicalmente imperniato di vuota formalistica, rimaneva svuotato dalle ironiche note di Šostakovič: e nessuno se ne accorse (o si finse di non capire…), dato che il compositore fu insignito della medaglia all’Ordine di Lenin. C’è chi lo accusò di abiura: poteva essere un Giordano Bruno, e fu un Galilei. Eppure la maglia della Quinta è intessuta di una latente, sottesa, ma non certo meno pungente ironia, irriverente scherno a ogni tentato imbrigliamento del genio di un compositore. Ogni genio, al di là di bieche costrizioni storiche, esprime ideali universali: Šostakovič non fu da meno, e lo fece proprio sotto il naso delle teste coronate comuniste. L’esecuzione è straordinaria: Eschenbach interpreta tutti questi sentimenti, marcando le vuote fanfare e rimarcando le vene sottese, ironicamente nere, sempre presenti nella partitura. L’orchestra reagisce divinamente. Seppur la sua interpretazione complessiva non tocchi le vette di un Leonard Bernstein (che portò la Quinta in Accademia ancora giovanissima, nel 1950: una partitura che amò sempre molto), risulta ottima comunque.

Applausi calorosi accolgono il compimento di questo programma manicheo, dove la luce mozartiana e il buio šostakovičano (autenticamente novecentesco) creano un contrasto, un’antitesi affascinante.